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Meraviglioso, non solo per amanti del cinema o di Welles. L'incontro di due grandi amici e artisti regala non soltanto riflessioni intelligenti e aneddoti spassosi, ma anche, oltre ad una bella caratterizzazione del personaggio Orson Welles, numerosi spunti di riflessione su che cosa sia il genio e la creatività, e su quanti limiti materiali la passione e la creatività permettano di superare.
Recensioni
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Leggere le lunghe conversazioni tra Peter Bogdanovich e Orson Welles è un’operazione non dissimile da quella tentata dal giornalista Jerry Thompson quando, attraverso le interviste e i colloqui con le persone che più gli furono vicine, tenta di ricostruire la figura e il senso della vita di Charles Foster Kane (e magari di scoprire chi o cosa si nascondesse dietro la parola Rosebud). L’opportunità di definire un uomo e i suoi fantasmi a posteriori, dopo essere passati per lo strappo della sua morte, è al centro di quello straordinario Citizen Kane che in Italia chiamiamo Quarto potere; e una situazione analoga si presenta quando ci troviamo di fronte alle parole di un uomo del passato che, parlando con un amico, mostra un lato intimo di sé e consegna la sua immagine a un giudizio pubblico – nei limiti di quanto possa essere credibile il regista di F for Fake.
L’occasione è offerta dalla ripubblicazione di This is Orson Welles, storico libro-intervista che Bogdanovich ricavò dalle tante chiacchierate fatte con l’amico/maestro. Un progetto dal lentissimo sviluppo, iniziato alla fine degli anni Sessanta e concluso soltanto nel 1992, sette anni dopo la morte di Welles. La prima edizione italiana – ormai sparita dalla circolazione – uscì da Baldini & Castoldi nel 1993, col titolo Io, Orson Welles. Adesso è il Saggiatore a riproporre il libro, ribattezzandolo Il cinema secondo Orson Welles (un modo per avvicinarlo a un altro, fondamentale testo in catalogo: quel Cinema secondo Hitchcock nato dai colloqui tra Hitch e Truffaut). Rispetto all’edizione precedente, quella del Saggiatore si differenzia per l’aggiunta dell’introduzione di Bogdanovich alla seconda edizione statunitense e per l’eliminazione della breve prefazione del curatore, Jonathan Rosenbaum. Restano intatte le altre sezioni: gli otto capitoli, la ricchissima cronologia della vita e delle opere di Welles e soprattutto la gustosa appendice contenente i dialoghi delle sequenze tagliate dall’ Orgoglio degli Amberson (l’opera seconda deturpata che segnò definitivamente il futuro di Welles, da allora in poi perennemente costretto a combattere con le produzioni e fare i salti mortali per poter lavorare a modo suo).
Da un lato gli scontri, talvolta durissimi, con le case di produzione per il controllo del materiale girato, dall’altro la necessità di rincorrere i fondi per finanziare autonomamente i propri progetti (cosa che lo costrinse ad accettare anche ruoli da attore in pellicole mediocri): la carriera di Welles è stata contraddistinta da un perenne senso di precarietà, al punto che lui stesso arrivò a dire, malinconicamente, di aver passato «la maggior parte della mia vita, ormai, a tentare di fare dei film». Il che è abbastanza paradossale, se si pensa che in un periodo rigidamente dominato dalle logiche e dal potere delle majors, come era quello a cavallo tra gli anni Trenta e Quaranta, era riuscito a ottenere il contratto più libero che un regista potesse desiderare, quello che gli dava carta bianca su ogni aseptto della realizzazione del film. Il risultato di questa autonomia è Quarto potere, probabilmente l’opera più influente nella storia del cinema dal tempo di Griffith. Da lì in avanti comincia l’incubo.
Dopo un’inattendibile anteprima dell’Orgoglio degli Amberson, organizzata mentre Welles è in Sudamerica a girare It’s all true, la RKO si spaventa per la reazione degli spettatori e decide di mutilare gravemente la pellicola. Uno dei produttori, Schaefer, scrive una lettera a Orson, riportata nel libro, in cui sostiene che «Orson Welles deve fare qualcosa di commerciale. Dobbiamo abbandonare i film “d’arte” e tornare con i piedi per terra. Educare il pubblico è costoso, e il tuo prossimo film dovrà essere pensato per il botteghino». In realtà Welles non si preoccuperà mai del pubblico e della sua risposta («Quando fai un film, lo fai per te») e cercherà sempre di fare di testa sua, pagando pesantemente le conseguenze: molti film non vengono portati a termine (tra cui The other side of the wind, che vede nel cast anche Bogdanovich), altri hanno tempi eccessivamente lunghi o dispongono di pochi strumenti a causa del budget limitato e altri ancora subiscono rimaneggiamenti. È il caso di quello che, probabilmente, assieme a Quarto potere è il capolavoro di Welles: L’infernale Quinlan(A touch of evil). La Universal tagliò circa venti minuti e bisognerà aspettare il restauro del 1998 per poter vedere il vero montaggio voluto dal regista.
A proposito di Quinlan, Bogdanovich quasi di sfuggita gli domanda se per caso non provi una specie di simpatia nei confronti del poliziotto corrotto. Non è un’osservazione di poco conto, perché una delle costanti della filmografia di Welles è proprio questa ambigua attrazione per i personaggi tirannici (di solito interpretati da lui). Quinlan abusa del suo ruolo, eppure, agli occhi di Orson, «ha amato Marlene Dietrich e ha salvato il suo amico da una pallottola». Nella stessa maniera Kane approfitta del potere della stampa. «Tutte queste persone, ciascuna a suo modo, esprimono cose che io detesto, ma provo umana simpatia per quei personaggi. [Kane] Ha una sua umanità, anche se gli manca una morale». Al gruppo bisogna aggiungere anche Harry Lime, l’antagonista del Terzo uomo di Carol Reed, su cui Welles lavorò molto anche a livello di scrittura. È strana questa apertura verso personaggi tanto radicali, ma in fondo non è stata la sua unica contraddizione, e forse ogni risposta sull’argomento risulta insufficiente. Welles è stato un maestro della finzione, dell’illusione e dell’arte della mistificazione. Il che non intacca il fascino delle sue parole; anzi se possibile lo amplifica.
Recensione di Massimo Castiglioni.
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