A partire da Nietzsche, la tesi che Wagner rappresenti un "caso" paradigmatico per la filosofia, un termine di riferimento essenziale per comprendere l'anima moderna e per misurarne le più profonde inclinazioni, si è spesso intrecciata con la denuncia delle implicazioni ideologicamente più ambigue del progetto wagneriano. Il dibattito sull'artista, in modo esemplare con Theodor W. Adorno e più recentemente con Philippe Lacoue-Labarthe, si è costituito come un "genere" filosofico caratterizzato da una fondamentale e persistente connotazione critica. Convinto che la musica di Wagner interroghi in un modo peculiare la filosofia e più in generale il problema dell'ideologia, Alain Badiou reagisce però alla tradizione dell'antiwagnerismo puntando a decostruirne i motivi ricorrenti. Il nucleo di queste lezioni tenute fra il 2005 e il 2006 presso l'École Normale Supérieure e corredate in questa versione italiana di un ricco apparato di note esplicative si può riassumere nell'idea che Wagner abbia stabilito nuove condizioni per la definizione dei rapporti tra musica e filosofia, e che proprio alla luce di queste nuove condizioni assuma oggi significato, contro il verdetto dei suoi critici, la possibilità di un'arte che non si limiti a sancire, con il proprio fallimento, la fine di ogni aspirazione alla grandezza. Il problema che Wagner rappresenta per la filosofia si può in effetti ricondurre alla domanda se sia ancora possibile, in una qualche accezione, una "grande arte". Va detto che Badiou, pur difendendo l'ipotesi che noi siamo oggi nuovamente toccati da questa domanda, non intende affatto ridimensionare le obiezioni di ordine estetico e ideologico che hanno fornito argomenti alla critica antiwagneriana, né ignora come la costruzione dell'"opera d'arte totale" sia in Wagner funzionale all'elaborazione di miti di tipo fondativo e identitario, in ultima analisi responsabili di una tendenza all'estetizzazione della politica che ha trovato nei fascismi la propria puntuale applicazione. Tuttavia, il fatto che a partire dal secondo dopoguerra vi siano stati, in sede di realizzazione musicale e scenica, diversi tentativi di "smitizzare il dramma wagneriano, puntando a valorizzarne il più possibile la dimensione artistica e teatrale, invita a domandarsi se la grandezza postulata con l'arte di Wagner non possa eventualmente sopravvivere quando venga emendata da ogni pretesa totalizzante. Badiou compie questo tentativo nel modo più difficile per un filosofo che si occupa di musica, vale a dire analizzando, da filosofo, la complessità delle tecniche compositive che organizzano in Wagner la tessitura del discorso musicale. Per compiere questo tentativo, prende le mosse dall'immagine del compositore "costruita" dai filosofi antiwagneriani e cerca di comprendere se l'idea di un'arte incline alla totalizzazione, dominata da una segreta aspirazione alla chiusura e colpevole di subordinare tutte le differenze all'unità della narrazione mitica sia confermata o meno dalla specifica qualità dei procedimenti musicali. A questo proposito, è particolarmente interessante il fatto che l'autore non ricostruisca la critica antiwagneriana commentandone le formulazioni più esplicite, ma riesca piuttosto nell'intento di definire il posto che la musica occupa nel contesto speculativo degli autori di cui si occupa. Questo principio metodologico gli permette ad esempio di leggere il ritratto che Adorno perfeziona di Wagneralla luce di quella polemica contro gli effetti globali del principio di identità che ha ricevuto la formulazione filosoficamente più densa nelle pagine della Dialettica negativa, dove a rigore il problema Wagner non compare come tale. La decostruzione che Badiou compie mira alla presentazione di un Wagner diverso. Se al fine di argomentare il carattere impositivo di una riconciliazione ottenuta a spese di ogni dettaglio e di ogni discontinuità la critica filosofica mette sotto accusa la "melodia infinita" o i famosi "motivi conduttori" quali espedienti artificiali di unificazione, Badiou ha buon gioco nel mostrare come il principio che orienta il comporre wagneriano sia piuttosto quello di una continua trasformazione di piccole cellule che conduce la musica verso il territorio dell'informale e verso la rinuncia a tutte le forme chiuse. Wagner, afferma l'autore, ha in realtà inventato un nuovo modello di relazione tra continuità e discontinuità nel campo della musica. Se l'estrema elaborazione dei materiali viene denunciata quale semplice differimento di una conclusione che nel finale del dramma non può che assumere una funzione affermativa, Badiou segnala invece come proprio nella musica di Wagner sia possibile scorgere un'organizzazione estremamente innovativa delle differenze, destinata a far emergere in ultima analisi la costruzione musicale di una soggettività intimamente scissa. Il maggiore pregio di queste lezioni consiste a mio giudizio nella capacità di indirizzare la tensione filosofica sui contenuti specificamente musicali dell'arte wagneriana, prestazione nella quale Badiou mostra di aver tratto profitto dalla lezione dei maestri cui pure rivolge la propria critica. Più incerto, benché indubbiamente suggestivo, mi sembra invece, nella conclusiva lezione dedicata al Parsifal, il significato della domanda circa la possibilità di una "cerimonia moderna" quale forma eminente di autorappresentazione di una comunità, questione nella quale l'autore, pur paventando il rischio di una riproposizione mitica tesa a sottomettere le masse a una qualche forma di rituale, sembra riconoscere una condizione necessaria per rimettere in gioco l'ipotesi di una creazione del nuovo in ambito storico. Piero Cresto-Dina
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