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La rassegna Off Bollywood sul cinema dal subcontinente indiano, in programmazione al Museo del cinema di Torino, riapre come ferite non rimarginate le "circostanze incendiarie" di cui parla Amitav Ghosh nei suoi reportage.
Amu (India, 2004) e Acque silenziose (Pakistan, 2003) affrontano da angolature differenti le persecuzioni dei sikh nel 1947, durante la partizione tra Pakistan e India, e nell'ottobre 1984 a Delhi dopo l'assassinio di Indira Gandhi. In I fantasmi della signora Gandhi" (1995) Ghosh racconta della difficoltà di trovare le parole, il tono, la voce per scrivere di quel genocidio di cui è stato testimone oculare. Dieci anni, per elaborare il lutto. Il film arriva dopo vent'anni, a denunciare la complicità del governo e della polizia esattamente come ha fatto Amitav Ghosh nel suo saggio. Forsaken Land (Sri Lanka, 2005), mostra una terra dimenticata, dove uomini e mezzi meccanici (camion militari, carri armati, aerei) si muovono come insetti in un paesaggio semidesertico, avvelenato da una guerra che non si combatte più, ma uccide per cause futili.
Ghosh coglie nei suoi ritratti letterari l'angoscia di scrittori emigrati, esuli o dissidenti che lamentano "la perdita della mappa che rendeva pensabile il futuro": lo sguardo all'indietro, nostalgico, di Agha Shaid Ali, poeta kashmiro-newyorkese, verso un paese diviso tra indù e musulmani, o quello altrettanto doloroso di Michael Ondaatje e Shyam Selvadurai per uno Sri Lanka ormai perduto, una terra-madre-paradiso cancellata dalla guerra civile.
Se il pudore del silenzio coglie l'autore dopo i terribili fatti di Delhi e dopo l'11 settembre, allo stesso tempo Ghosh non si sottrae alla necessità della testimonianza. "Si può scrivere di situazioni violente senza che il proprio lavoro ne diventi complice?": la domanda che si pone nella prefazione al volume trova immediata risposta quando Ghosh, ospite di Luisa Passerini all'Università di Torino lo scorso maggio, sostiene che "basta trovare la giusta chiave per parlarne". Questo rigore ideologico Ghosh lo traduce in pagine accorte, precise, che mostrano come l'attività di reporter non sia una seconda anima del romanziere, bensì il segno della continuità della sua scrittura e del suo impegno civile.
Tra i diciassette saggi del volume basta forse citarne due, esemplari per stile, ricchezza e intensità del narrato: The Ghat of the Only World e Danzando in Cambogia. Nel primo Agha Shahid Ali rivive con la sua gioia, nonostante la malattia terminale, con la sua autentica passione culinaria, l'amore per la musica e la convivialità e per l'America, dove dice "siamo stati capaci di creare uno spazio in cui possiamo stare tutti insieme grazie alle buone cose." Tra queste la poesia, nella forma strutturata della ghazal, attraverso cui Shaid ha lasciato un segno e un seguito nella poesia in inglese.
Nel secondo la ricostituzione della scuola di ballo di Phnom Penh nel 1979 diviene elegante metafora portante di un discorso sul regime di Pol Pot e sulla sua caduta, e sulle conseguenze che ancora gravano sulla Cambogia degli anni novanta. Violenza e corruzione rendono lento e incerto il percorso verso la democrazia non solo in Cambogia, ma in molti paesi che dopo la decolonizzazione sono caduti vittime di dittature politiche o religiose. Se la scuola di danza tradizionale crea un'esile opposizione dell'arte contro la guerra, in Birmania come in India altrettanto esili gesti eroici di donne offrono un esempio di resistenza contro la violenza etnica e i governi corrotti.
Le pagine di Ghosh riscrivono la storia attraverso testimonianze dirette, voci, interviste a chi la storia la vive in prima linea, sulla propria pelle, rischiando la vita anche a causa delle parole: "È dunque solo giusto che quanti lavorano con le parole restino scrupolosa attenzione a ciò che dicono". In questi reportage lo scrittore indiano non indossa maschere. Ci sorprende sempre, ci coglie impreparati. Anche quando credevamo di aver già visto o sentito tutto, magari in televisione, come a proposito dello tsunami che il 26dicembre 2004 ha lasciato milioni di emigrati indiani nelle Andamane e Nicobare senza neppure un pezzo di carta con il quale dimostrare la propria identità. O forse da quando le circostanze incendiarie hanno smesso di essere prerogativa di quei "mondi fatti a metà" e sono diventate cronaca e realtà anche del mondo occidentale.
Carmen Concilio
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