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recensione di Bobbio, M., L'Indice 1992, n.10
La malattia da citomegalovirus veniva definita dai libri di testo di medicina come "un'affezione dei lattanti causata da un'infezione intrauterina". Era una malattia poco conosciuta e si sapeva che il 90 per cento della popolazione aveva contratto un'infezione asintomatica. Ora invece le infezioni da citomegalovirus sono molto più frequenti perché colpiscono soggetti che hanno il sistema immunitario depresso dall'Aids o dai farmaci che combattono il rigetto di un organo trapiantato. Una delle forme cliniche più frequenti è la retinite, che colpisce circa il 20 per cento degli ammalati di Aids; se non trattata, ha un'evoluzione progressiva e distruttiva che può portare alla cecità. Lo scrittore francese Hervé Guibert è stato colpito da questa malattia. In un precedente romanzo ("All'amico che non mi ha salvato la vita", Guanda, 1991) aveva descritto lo stato d'animo di chi si trova condannato dal referto di sieropositività per Aids. In quel romanzo l'autore ci racconta la depressione che può indurre all'ambivalente ricerca di un farmaco cardiotossico con cui suicidarsi senza soffrire, la speranza di una concreta e sicura salvezza per la scoperta di un vaccino contro l'Aids, le complicità che possono nascere con coloro che condividono la tua stessa sorte.
Ora l'autore ci presenta un breve diario del ricovero a cui si è sottoposto per curare l'improvviso deterioramento della vista. Il tipo e la gravità della malattia, le caratteristiche dell'ospedale e del sistema sanitario in cui si svolge il ricovero sono del tutto marginali: ci si immerge, con un sottofondo melanconico, nella vita di un qualunque degente in un qualunque ospedale. Quei ventun giorni si snodano tra la necessità di farsi rispettare ("Un rapporto di forza che dura uno o più notti e giorni. Vogliono che si perda. Contano sull'usura, poi, a seconda dei casi, rispettano o schiacciano"), il fastidioso chiacchiericcio notturno delle infermiere ("Stasera lascerò la finestra aperta sul rumore della circolazione del boulevard periferico"), le ritualizzazioni, spesso inutili, che mortificano la personalità del malato ("Non è sempre necessario il digiuno prima dei prelievi, ma lo stomaco e la psicologia del malato non contano"), l'angosciosa decifrazione di labili segnali per interpretare il proprio futuro ("Le urla del vicino. O è molto delicato o è molto doloroso. Purtroppo propendo per la seconda ipotesi. Forse tra poco sarò io a gridare"). Nel diario vengono pennellate le caratteristiche di alcuni personaggi, "le perle e le canaglie", che dimostrano con maggior o minore grazia, empatia, burocratismo o interesse intorno al suo letto: la dietologa simpatica e competente, la giovane interna vagamente asiatica, quell'orso del vicedirettore, la psicologa con un sorriso diabolico e una maschera immobile e truccata, ma "non c'è niente di più eccezionale" delle infermiere che adorano il proprio mestiere.
Così passano i giorni, si definisce la diagnosi, iniziano le cure con i loro effetti indesiderati; la dimissione non conclude la malattia perché si affaccia lo spettro della re-ospedalizzazione.
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