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(dalla Rivista "Valore Scuola") <br> Questo libro di Marco Cinque arriva in un momento particolare. Particolare ma preannunciato. Siamo in guerra, una guerra totale, assurda, sudicia. (...) La poesia non salva il mondo. Non scongiura la follia. Non ferma le guerre, gli eccidi, le mostruosità. Ma senza la poesia la tragica stupidità del mondo vincerebbe. E dunque, c’è bisogno di poesia. E c’è bisogno di poesia come questa. Le strade della poesia sono tante e tortuose e tutte hanno licenza di percorrimento. Sfuggendo alle definizioni, la poesia ci induce a prendere scorciatoie per semplificare: lirica, epica, civile (come se potesse esistere una poesia incivile). La poesia è sempre civile, intendendo per “civile” il grado di coinvolgimento, l’impegno, il mettersi in gioco, mente e cuore. È il caso di questo libro coinvolgente, appassionante, necessario, dove le ragioni della poesia passano forse in seconda linea. L’imperativo per l’Autore è dire, è schierarsi contro ogni tipo di barbarie con la coscienza di uomo consapevole delle proprie armi e dei propri limiti. Sotto la penna vorace di Cinque scorre il mondo terribile e meraviglioso: diversi, emarginati, prigionieri in attesa della morte, bambini difficili, barboni, guerre, missili, sogni, amore, inganni e ombre rosse, tamburi e libertà, pace e stragi, e genocidi... Lui guarda col cuore e parla, scrive, suona, fotografa... Le sue ballate sono fatte per essere dette a più voci, cantate in coro, nelle piazze. Parlano spietatamente di morte e evocano fortemente la vita, la gioia di vivere, l’innocenza, la grazia, la poesia dei bambini. Perché Marco sa che i bambini sono poeti. Non a caso i destinatari privilegiati sono proprio loro, quei bambini, che nei suoi viaggi nelle scuole Marco riesce a stupire e coinvolgere come un mago delle parole e delle meraviglie. “Da piccoli siamo tutti analfabeti e poeti. Quando diventiamo grandi impariamo a leggere e scrivere, ma spesso perdiamo la poesia”, dice Marco. Lui, la poesia non l’ha perduta. <br> Maria Jatosti
Parole semplici come note, pronte a disporsi in armonie discrete ma mai pacificate; silenzi che di tanto in tanto cedono il passo al suono profondo dei tamburi, ritmi ancestrali che mai degenerano nella rabbia e che pure parlano di guerre e violenze, morti e mai raddrizzate ingiustizie. Spazi scarnificati nei quali nessun superfluo è ammesso, infiniti e molteplici presenti nei quali consumare la gioia di un attimo che non è mai fuggente. C'è tutto questo nelle poesie che Marco Cinque ha raccolto nel suo ultimo libriccino, «Civiltà cannibali. Per una poesia civile» (Montedit). Ma in questi versi, soprattutto, c'è Marco che in quegli spazi vuoti di eccesso ma ricolmi di senso, vive da sempre con il sorriso, che «ama l'istante che precede la sillaba». «Non/ abbiamo/ niente/ da/ raggiungere./ Noi/ siamo/ la/ strada.» Queste le parole che - non a caso - chiudono il volume e che nulla hanno a che spartire con l'abusata retorica del viaggio. La strada di Marco Cinque - la strada che è Marco Cinque - dice piuttosto di un girovagare curioso per le strade della vita, di un cammino che ha imparato a riconoscere la bellezza di ogni piccola sosta, di un movimento che vive di se stesso non perché inessenziale sia la meta ma perché ad ogni meta deve seguire un nuovo cammino. Non sono quelli di Marco Cinque versi rassicuranti. Né potrebberlo essere perché parlano di solitudine e abbandoni e danno voce ai profughi, ai carcerati, agli esclusi, ai sottomessi. Eppure. Quando i tamburi cominciano a rullare e i flauti a suonare, la musica si fa parola civile, il cielo e la terra si confondono e l'amaro si fa dolce. Iaia Vantaggiato
Un libro intenso e bellissimo. Una denuncia piena di civiltà. La poesia al servizio degli "ultimi". E mi piacerebbe sentire l'autore, Marco Cinque, nell'interpretazione orale dei testi accompagnati dalla musica etnica dei flauti indiani, delle calimbe, delle percussioni... Aspetto di assistere ad uno dei suoi incontri. Ancor più, con quello che succede nel mondo, questo libro è oggi terribilmente attuale. Un grazie di cuore all'autore. massimo
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