Una stagione di studi lunga e intensa si rispecchia in questa raccolta di saggi di Luisa Mangoni, già pubblicati tra il 1981 e il 2011. Essi offrono affondi analitici o sguardi sintetici rispetto ad alcune delle principali opere dell'autrice quali L'interventismo della cultura (1974), Crisi di fine secolo (1985), Pensare i libri (1999). Si tratta di interventi di taglio e lunghezza eterogenei, che di volta in volta mettono a fuoco un momento, una figura o un problema nell'arco di tempo dall'Italia postrisorgimentale al dopoguerra repubblicano. Sono però legati da un tema comune e dominante, che costituisce il filo conduttore di tutta la ricerca storiografica dell'autrice: il rapporto tra politica e cultura, o tra intellettuali e potere: un rapporto "sempre inquieto, turbato, segnato spesso a posteriori da rimpianti o rimorsi, ritenuto a volte inconciliabile e tale da imporre una netta separazione di campi, sia che si trattasse di iniziative collettive (la promozione di riviste ad esempio) o di esperienze di singoli protagonisti particolarmente rappresentativi". In ciascuno di questi saggi emerge una non comune capacità di auscultare e lasciar parlare i testi, di compulsarne i contesti palesi e sotterranei, di individuarne i luoghi e gli strumenti di produzione e di diffusione. Da questa prospettiva "ad alzo zero" ‒ che riconosce uno spazio centrale a quelle figure che, agli occhi dei contemporanei, erano state più rappresentative del proprio tempo ‒ acquista un'importanza fondamentale l'ottica generazionale. In questo senso, solo la sequenza delle generazioni che tra Otto e Novecento esibivano una consapevole rappresentazione di sé e del proprio ruolo può consentire di stabilire cesure a fronte di ininterrotte continuità e di definire i significati, per altro verso ambigui o opachi, dei mutamenti storici. Perciò, Mangoni ricorre di volta in volta al cannocchiale o al microscopio, con un'alternanza improvvisa e illuminante di prospettive ravvicinate e di campi lunghi. Si tratti, ad esempio, di ripercorrere i dibattiti pubblici sullo stato nuovo e sull'incipiente società di massa attraverso le riflessioni sociologiche, giuridiche e antropologiche di Mosca, Vittorio Emanuele Orlando e Lombroso; di ricostruire le istanze di rinnovamento della classe dirigente attraverso gli ambienti "antigiolittiani" della "Voce" di Papini e Prezzolini; di rileggere i rapporti e i conflitti tra "fascismo" e "antifascismo" attraverso l'ampio repertorio di scritti di Cantimori, oppure attraverso l'esile, ma prezioso corpus di lettere di Leone Ginzburg dal confino. "Civiltà della crisi": questa è la chiave con cui sono decodificati i rapporti tra intellettuali e politica in questo blocco di tempo lungo. Privilegiando i momenti di transizione e di crisi che al tempo stesso stringono e lacerano i fili del processo storico, facendone sopravvivere solo i più robusti e profondi, l'autrice intende analizzare persistenze e rotture nel dibattito pubblico e misurarne le conseguenze sulle trasformazioni del sistema politico. La denuncia della corruzione e della disfunzione del sistema politico parlamentare, la condanna "moralistica" della classe dirigente e della sua prassi trasformistica, la convinzione scientifica dell'impossibilità di un reale e profondo cambiamento della società, il confronto costante, quando non ossessivo, con il passato, rappresentano alcuni dei temi che più circolano nella cultura italiana dalla fine dell'Ottocento in poi. Nondimeno, sono temi che si modulano diversamente, a seconda dei contesti dell'Italia postunitaria, giolittiana, fascista e postfascista. Dei tanti spunti di riflessione che questi saggi offrono al lettore, richiamiamo in particolare la possibilità di inserire le cruciali esperienze culturali degli anni trenta e quaranta in una storia intellettuale di più lungo periodo, che affonda nella cultura tra fine Ottocento e inizio Novecento e che va ben oltre la seconda guerra mondiale. Se infatti si ripensano le prospettive politiche della Resistenza, alla luce dei problemi e delle contraddizioni che la precedente cultura italiana aveva elaborato intorno alla possibilità di rinnovamento della classe dirigente postunitaria e giolittiana, non può stupire che dal 1945 in poi si facesse strada una coscienza della persistenza che ovunque affiorava sotto la categoria della "crisi". Questa coscienza avrebbe profondamente segnato la cultura italiana del secondo dopoguerra. Nell'avvertenza, Mangoni si smarca dall'ipotesi di adottare una qualsiasi chiave di lettura attualizzante. La riduzione delle espressioni e delle rappresentazioni di "crisi" a mera formula ripetitiva tende a farne "reperti archeologici", che parlano più del passato che del presente. A quale altezza cronologica si collochi lo "iato" tra i due, e perché, non è detto esplicitamente; è chiaro però che esso pare esaurire se non chiudere l'esperienza storica di quella "civiltà". Marco Bresciani
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