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recensione di Sandrin, C., L'Indice 1988, n. 5
Esce in traduzione italiana l'opera più significativa che Schelling abbia dedicato alla morte. Si tratta di un'opera che nelle intenzioni dell'autore avrebbe dovuto restare inedita, e che ha conservato per questo una sua qualità specificamente intima, privata, presentando così, come nota Xavier Tilliette, uno Schelling diverso, nella veste inconsueta di "pellegrino orfico", alla ricerca della possibilità di veder dischiudersi il regno degli spiriti. Nel 1809 Schelling è provato dal dolore per la morte improvvisa della moglie Caroline. Questo evento è naturalmente di fondamentale importanza per la stesura dei dialoghi di "Clara", composti probabilmente l'anno successivo, ma le riflessioni che vi sono contenute vanno comunque lette nella loro stretta relazione con gli scritti coevi di Schelling e devono essere viste come momento rappresentativo del suo itinerario filosofico, come fa Stefano Zecchi nella Presentazione. I dialoghi di "Clara" hanno tuttavia una loro peculiarità che li rende insieme anomali e complementari rispetto agli altri scritti schellinghiani. Il fascino che quest'opera incompiuta esercita sul lettore consiste soprattutto nella particolare atmosfera di allusione, o di attesa, che la percorre, e che vive nella descrizione di paesaggi spettrali, di luoghi comunque consacrati alla custodia dei misteri della morte. Le tombe, il lago, la notte sono i luoghi e il tempo di "Clara", e i misteri che vi sono racchiusi appaiono di lontano, in lampi improvvisi, per tornare subito nell'invisibile. E all'invisibile forse non ci si può avvicinare altrimenti che in questo modo, nell'atteggiamento di chi sta in ascolto, in attesa, nel modo cioè in cui si esprime la grande poesia.
La domanda sulla possibilità di una vita dopo la morte, che percorre l'intero frammento, solo allusivamente richiama il problema tradizionale dell'immortalità dell'anima. Che l'anima sia connessa tanto col corpo quanto con lo spirito, che essa sia anzi l'essenziale di entrambi, sta ad indicare proprio quel passaggio dal visibile all'invisibile che non comporta però la cessazione dei legami con la terra, giacché la terra stessa, nella sua totalità, aspira alla vita nell'invisibile: che la morte sia la cessazione della vita sulla terra è vero solo finché alla terra è negata un'interiorità sua propria. Invece, nell'ambito della filosofia schellinghiana dell'identità, l'uomo, e quindi la sua morte, divengono il punto in cui l'esteriorità della natura si trasforma in interiorità spirituale, e l'interiorità spirituale in esteriorità. Giacché la creazione attingerà il suo fine "solo nel momento in cui ciò che vi è di più alto e spirituale sarà disceso in ciò che vi è di più corporeo, in cui il più basso e il più opaco sarà elevato a ciò che vi è di più spirituale e radioso"(p. 113).
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