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recensione di Di Cori, P., L'Indice 1996, n. 6
Viennese, nata nel 1931 e deportata insieme alla madre a Theresienstadt, ad Auschwitz e infine a Christianstadt, da dove riesce a fuggire nel 1945, Ruth Klüger emigra negli Stati Uniti alla fine della guerra; compie studi letterari, insegna germanistica in diverse università fino ad approdare in quella californiana di Irvine. Durante una permanenza a Gottinga nel 1988, in seguito a una caduta che la tiene immobilizzata per qualche mese, comincia a scrivere le memorie della propria giovinezza, che dedicherà poi agli amici tedeschi.
"Vivere ancora" è un libro straordinario, tra i più importanti nel suo genere pubblicati negli ultimi anni. Si tratta anche di un testo complesso, che si discosta da gran parte della letteratura autobiografica esistente sull'argomento per il tono polemico e poco ammiccante, a tratti addirittura ruvido, che lo caratterizza. Ciascun capitolo è attraversato da brani di poesia, inseriti dall'autrice quasi fossero delle foto ricordo, a commentare momenti che la prosa non riuscirebbe a esprimere con efficacia.
Un'inquietudine incessante caratterizza lo stato d'animo della protagonista, che lungo quattro decenni si interroga sulla propria esperienza di sopravvissuta, e la confronta con chi l'ha condivisa con lei, con chi non ne vuole più sentir parlare, con coloro che la deformano e pretendono di interpretare o spiegare la Shoah con semplificazioni e censure, con quei pochi che sono capaci di ascoltare, con il figlio che le rimprovera di non avergli mai parlato della sua terribile esistenza da bambina, con i colleghi che ascoltano malvolentieri i suoi interventi in pubblico, con la propria madre infine, a cui è legata da un insanabile conflitto .
Il racconto degli anni dell'infanzia, della prigionia e poi dell'emigrazione è continuamente spezzato dai commenti a reazioni di conoscenti, amici e parenti che negli anni hanno accompagnato il difficile e doloroso processo della protagonista per riuscire a scrivere sull'esperienza dei lager, per dar conto di come è diventata, di com'era prima, e durante, e adesso.
Il libro è pervaso da una tormentata interrogazione sulla propria scrittura, e sugli interlocutori reali e ideali, in primo luogo i tedeschi. Le domande più brucianti, intorno a cui i problemi dell'identità attuale e passata si intrecciano con la volontà di impedire la pacificazione e il silenzio, tagliano il libro esattamente a metà.
"Per chi scrivo in verità? Certamente non per gli ebrei, perché allora non lo farei in una lingua che un tempo, quando ero bambina, era parlata, letta e amata da tanti ebrei da esser considerata da molti la lingua ebrea per eccellenza, ma che oggi pochissimi ebrei conoscono bene. Scrivo allora per coloro che non vogliono o non possono dividere i sentimenti degli assassini e quelli delle vittime, scrivo per coloro che giudicano poco sano per la psiche leggere e informarsi troppo sui delitti degli uomini? Scrivo per coloro che trovano che io emani un'aura di estraneità impossibile a superarsi? Detto altrimenti, scrivo per i tedeschi. Ma lo siete veramente? Volete veramente essere così?".
L'esistenza fuori dal lager si presenta per Klüger, che la ripercorre ormai in età matura, come l'inizio di un tempo senza fine in cui non potrà evitare di continuare a riflettere sull'esperienza vissuta, sulla mostruosa incredulità degli altri, sul perché e come sia riuscita a salvarsi quando sono morti in milioni, impossibilitata a perdonare, a pacificarsi, a dimenticare, "in mezzo ai fantasmi che [la] assediano"; e così sarà per gli anni che le restano ancora da vivere. All'amica che la invita a mettere da parte il rancore replica infatti: "Solo nelle mie inconciliabilità mi riconosco, a loro mi aggrappo. Lasciamele".
La tormentata indagine di Ruth Klüger esprime magistralmente un elemento essenziale nell'esperienza dei lager, già evidenziata in uno degli studi più importanti degli ultimi anni su questi temi, la ricerca di Lawrence Langer sulle "rovine della memoria" ("Holocaust Testimonies. The Ruins of Memory", Yale University Press, 1991): che questa esperienza, per ogni singolo essere che l'ha vissuta, ha assunto un carattere del tutto unico; è stata diversa ed eccezionale per ciascuno/a.
L'unicità si rivela la chiave principale per comprendere a fondo la moltiplicazione delle testimonianze, il bisogno di ciascuno di raccontare la propria storia e di continuare a raccontarla incessantemente, quasi che soltanto impegnandosi in questa narrazione ininterrotta, e nella trama ideale di un infinito racconto, fosse possibile ai sopravvissuti distogliere temporaneamente lo sguardo dalla presenza dei fantasmi, per un momentaneo sollievo.
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