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1998
1 gennaio 1998
222 p., ill.
9788880120957

Voce della critica




Prédal, René, Tutto il cinema di Bresson, Baldini & Castoldi , 1998
Spagnoletti, Giovanni (a cura di), Il caso e la necessità. Il cinema di Robert Bresson, Lindau , 1998
Arecco, Sergio, Robert Bresson. L'anima e la forma, Le Mani, 1998
recensioni di Corsani, A. L'Indice del 1999, n. 03

Il cinema di Robert Bresson è generalmente definito scarno, essenziale, rigoroso; la sua estetica un'"estetica della privazione". Ma se i suoi film possono sembrare "antispettacolari", scevri da eccessi sentimentali ed espressivi, non per questo sono semplici; anzi.Alcuni volumi di recente pubblicazione introducono al suo cinema, fondato su un'estetica che tende a sottrarre alla realtà il suo carattere rappresentativo, tagliando le azioni, inquadrando i dettagli, saltando passaggi logici, lasciando intravedere l'inizio di un atto e precipitando bruscamente lo spettatore di fronte alle sue conseguenze. Un metodo che Paul Schrader ha definito "stile trascendentale". Nei film degli anni cinquanta in particolare (Il diario di un curato di campagna, Un condannato a morte è fuggito, Pickpocket), secondo il regista americano, la ripetizione da parte della voce off di azioni già viste sullo schermo conferisce ad azioni apparentemente banali un ipotetico carattere progettuale, un "fondamento logico" che non è dato rinvenire nella realtà. Da qui il rimando a una realtà "altra", che il credente individua nel trascendente e nei piani di Dio, ma che anche il non credente può ipotizzare in un altrove determinato dal rifiuto del presente mondo di sofferenza. E in ogni modo - scrive invece Marco Bellocchio - Pickpocket e Un condannato a morte è fuggito "lasciano all'ateo la libertà di commuoversi senza credere in Dio". Anche il libro di Sergio Arecco, nell'affrontare i film degli anni cinquanta, sottolinea questa sorta di "raddoppio" tra la diegesi "agìta" sullo schermo e la ripetizione operata dalla voce, e anche Arecco propone un'interpretazione per così dire laicizzata della spiritualità del regista: ma la propone in maniera più radicale, la porta alle estreme conseguenze, quasi dicendo essere "l'ascesi" solo una questione di metodo realizzativo; è invece del tutto legittimo, e anche stimolante, parlare di una "mistica", che per Bresson si concretizzerebbe nella "comunione letterale tra le parole e le cose". Arecco avanza questa ulteriore ipotesi interpretativa nell'analizzare il Diario di un curato di campagna, ma tale suggestione può trovare conferma a contrario nello scollamento, proprio di film come Il diavolo probabilmente, tra suoni, concetti e significati.

Se nei film di questo primo periodo c'era ancora un sentore di speranza - e lo stesso Bellocchio fa rilevare che il "condannato" fugge alla follia nazista come il borsaiolo guarisce dalla propria ossessione -, negli anni sessanta e settanta il pessimismo dell'autore si fa sempre più inesorabile. In effetti, come bene emerge dallo sguardo complessivo e soprattutto dalle analisi di René Prédal dei singoli film, il progressivo pessimismo di Bresson, il suo cristianesimo da molti definito giansenista lo portano a negare alla sofferenza di uomini, donne e animali (pensiamo all'asino Balthazar) ogni attribuzione redentrice. Il curato di campagna, così come nel romanzo di Bernanos, muore dicendo: "Tutto è grazia"; ma se così è, l'eventuale redenzione è tutta nelle mani di Dio, il dolore umano non ha alcun valore salvifico.

Dal libro di Prédal e dai testi critici del volume collettivo - fra cui spiccano quello di Giorgio Tinazzi intitolato L'economia della forma (come il primo capitolo della sua monografia edita nel 1976 da Marsilio), quello di Vincent Ostria, e quello di Jean Sémolué (dedicato ai personaggi di Bresson) -, come dalle osservazioni del regista Michael Haneke, si evince che il metodo, nel cinema di Bresson, è tutt'uno con la sua spiritualità e la sua visione del mondo, oltre che con la sua idea di cinema, anzi di "cinematografo" (con insistenza sul valore di scrittura). Il lavoro certosino che il regista ha sempre compiuto nel ricercare scampoli di verità nei rumori (registrati a volte in contesti ben diversi da quelli delle immagini, come spiega Prédal a proposito dei treni di Pickpocket, e raffinati al punto che Serge Daney dedicò un celebre saggio - L'organo e l'aspirapolvere, riportato in appendice al libro di Prédal - a una sequenza del Diavolo...), o nei gesti quasi inconsapevoli degli interpreti (si vedano a questo proposito nel volume di Lindau le testimonianze di Anne Wiazemski, Isabelle Weingarten, Dominique Sanda, ma anche di Georges Prat, tecnico del suono per Il diavolo probabilmente e di Pasqualino De Santis, direttore della fotografia in Lancillotto e Ginevra, Il diavolo probabilmente e, in parte, per L'Argent) è stato portato alle estreme conseguenze; nonostante l'accanimento dell'autore nel cercare un senso al di là delle apparenze, collegando gli elementi che ai nostri occhi si presentano in forma caotica, il mondo sfugge ormai a qualsiasi tentativo di ricomposizione; i personaggi "positivi" come l'asino Balthazar non hanno più posto; Mouchette, Così bella così dolce e Il diavolo probabilmente ruotano intorno a dei suicidi; se c'è un ravvedimento finale (Yvon, protagonista di L'Argent, sprofondato quasi casualmente nel crimine, si consegna infine alla polizia) ciò avviene solo dopo la strage di una famiglia.

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