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Va detto subito, perché il caso lo richiede: Laura Pugno ha inventato qualcosa. Capire razionalmente cosa, e codificarlo attraverso categorie convenzionali, è più arduo. Conoscevamo la narrazione in versi, l'antinarrazione, i simboli e le allegorie; decifravamo metafore e parabole; sappiamo ormai interpretare a meraviglia ipertesti e rizomi. Ma Laura Pugno azzera o rimescola tutto, riportando la poesia entro un confine arcaico, marcato da un indicibile ai limiti dell'orfico, e però fondendo quella ritualità originaria con la virtualità che dilaga e, soprattutto, riportando la materia poetica ridotta a primordiale essenzialità entro una forma tanto più definita quanto meno decifrabile.
Il colore oro, una delle ultime uscite di "fuoriformato", la ricercata collana diretta da Andrea Cortellessa, è un libro perfettamente compiuto, pur costituito da parti distinte e maturate in momenti diversi, come ripercorso dall'autrice nella nota al testo. È ancora l'autrice, durante la presentazione pubblica al festival Pordenonelegge 2007, a raccontare come la propria precedente tendenza al frammento sia convogliata in progetti unitari. E qual è il progetto, qual è l'unità, a cosa rimanda la compiuta perfezione del Colore oro? Cortellessa, in quella medesima occasione, ha parlato di "moderno arcaico e terribile". In ogni caso, questo va detto decisamente, Laura Pugno ci libera dall'ossessione del postmoderno (del cyber, della fiction, della intertestualità, con tutto il portato di ormai trite convenzioni) per introdurci a una dimensione caso mai post-umana, in cui dell'umanità si sono persi i connotati fondamentali, dallo spaziotempo, all'identità, alla percezione di questa attraverso i due dati ontologici fondativi, che qui vengono sin dall'inizio negati: l'io e il corpo (pure costantemente nominato, quest'ultimo, ma ridotto poi di fatto a pochi elementi sintetici, funzionali ai ripetuti gesti rituali: i denti, i capelli).
Sembra di trovarsi di fronte a un'allegoria benjaminianamente vuota, in un mondo dominato dall'opacità del referente (nei paratesti Dal Bianco e Giovenale parlano rispettivamente di "oscurità" e di "ipnosi" o "arbitrarietà"): "da qui / il tuo viaggio / riprenderà più tardi / stanotte dormi / sotto una yurta e nel fiato / del toro, hai / protezione, / totem". Si tratta di una simbologia che non racconta una storia, a ben vedere, nemmeno in emblemi, rimandando viceversa a un senso costantemente inattingibile e, insieme, disegnando (non per niente anche in immagine, grazie al contributo del sodale Mazzacane) un orizzonte decisamente perturbante, proprio nel senso dell'Unheimlich freudiano. Ciò che ci è familiare vi si replica in forma straniata, oppure, viceversa e più spesso, a imporsi come assolutamente naturale è ciò che dovrebbe esserci, in via teorica, non necessariamente noto: «tu sai fare, / i letti, / le erbe, questi barattoli pieni: sai fare, / nascostamente».
La felice concomitanza editoriale con il primo romanzo dell'autrice, Sirene (Einaudi, 2007; cfr. "L'Indice", 2007, n. 10), rende conto di questa ambivalenza al meglio, trasbordandoci senz'altra spiegazione entro un universo di yakuza, peste nera, estro animale, creature mezzeumane e via così, in cui le rare intrusioni di vita oggidiana (la tuta adidas, il suv) stridono come i cigolii di The others, film dagli evidenti echi jamesiani su vivi meno vivi dei morti, così che i veri altri, alla fine, erano loro. Anche nel Colore oro, come in Sirene, le interferenze sono rare ma ripetute. A scandire il flusso monodico di misteriose azioni imposte al "tu" poetico (perché il modo di Pugno, come notato da altri, risulta decisamente imperativo, in senso proprio grammaticale), gli stessi elementi ritornanti: gli spaghetti, il riso, l'uovo, il sushi, la card, il post-it o lady marmelade. Il tu che è la persona del virtuale per antonomasia, ossia il videogame, come già notato da Tommaso Ottonieri ("Carta Etc.", maggio 2007) deve muoversi infatti entro una sorta di pantomima di gesti tanto codificati quanto incomprensibili ("ti porteranno via di nuovo/ tieni il corpo pulito e pronto / trattato con foglie di menta"), il cui disvelamento sembrerebbe risiedere proprio nella "scatola" continuamente citata. "Scatola", valevole per "schermo", ancora secondo Ottonieri, con un surplus di visionarietà lynchiana.
Ma che cosa vogliono dire questi riti? Sicuramente non vogliono (e non possono) raccontare una storia alla maniera tradizionale, col suo contenuto di verità esperienziale e il carico di responsabilità esemplare. Chi conosce l'autrice dal brillante esordio delle tredici narrazioni (ma più immagini in divenire) di Sleepwalking (Sironi, 2002) sa che non è il suo obiettivo, e Dal Bianco, nell'introduzione al nuovo libro, correttamente pone l'accento su questo programmatico rigetto. Quello che forse non ci si chiarisce a sufficienza è a chi stia parlando l'ultra-allegoria o post-allegoria (l'allegoria nell'epoca del virtuale, infine) tanto di questo libro come di Sirene. Il tu del videogame non sarebbe propriamente tale se non prevedesse comunque un orizzonte ulteriore: quello di chi manovra il joystick, o apre e chiude le pagine di un libro. A chi parlare, in effetti: la grande incognita della poesia contemporanea. Di sicuro la direzione in cui d'ora in poi si muoverà Pugno non è irrilevante.
Gilda Policastro
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