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Comae. Identità femminili nelle acconciature di età romana - copertina
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Comae. Identità femminili nelle acconciature di età romana - copertina

Descrizione


"Attraverso la forma e l'ornatus (o la loro assenza) i capelli sono efficaci indicatori dello stato, del ruolo e dell'età di una donna; testimoniano di integrazione o di estraneità al sistema, tra romanizzazione e specificità regionali; parlano di cultus e di ritualità; si aprono al sacro, con il quale dialogano: insomma, contribuiscono a dare identità alle donne di epoca romana nonostante gli stereotipi costruiti sul tema delle chiome femminili così presenti nelle fonti letterarie". (dalla Premessa di Maria Elisa Micheli e Anna Santucci).
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Dettagli

2010
7 dicembre 2010
154 p., ill. , Brossura
9788846727275

Voce della critica

"Le donne non hanno né le magistrature, né i sacerdozi, né i trionfi, né le insegne, né il bottino di guerra: le loro insegne sono l'apparenza elegante, i monili, gli ornamenti. Questa è la loro gloria" (Liv. 34, 7). Con queste parole il tribuno della plebe Lucio Valerio sancì, nel 195 a.C., l'abrogazione delle leggi suntuarie/contro il lusso che erano state adottate alcuni anni prima, in un momento di grande difficoltà per Roma. L'intenzione non era quella di valorizzare le donne, ben inteso, bensì quella di concedere loro qualche riconoscimento, qualche gratificazione per evitare che creassero problemi, in casa e fuori.
Lucio Valerio coglieva evidentemente nel segno: le donne romane non avevano altro che una gloria effimera da esibire, fatta di munditiae et ornatus et cultus: escluse dalla vita pubblica, eterne minori sottoposte a tutela, spendevano la loro vita nelle occupazioni domestiche, le più fortunate accanto a uomini illustri e facoltosi; non molte erano le donne ricche, pochissime, evidentemente, le principesse imperiali; tutte condividevano la medesima subordinazione agli uomini, l'impossibilità di scegliere il proprio destino, la morte precoce per le gravidanze. Il mos maiorum sosteneva un unico modello ideale femminile, quello della donna virtuosa, casta e lanifica, fedele e riservata; le donne non allineate al modello erano connotate in modo negativo: o sessualmente depravate o amanti del potere, e dunque potenzialmente responsabili della crisi morale e sociale dello stato.
Le fonti documentarie, in realtà, rivelano un quadro del mundus muliebris più articolato e dinamico di quello pervicacemente tramandato dalla tradizione letteraria romana: conosciamo le biografie di alcune donne colte, ricche, influenti, o semplicemente di lavoratrici impegnate in attività all'esterno della domus; le Augustae e le principesse imperiali godevano di grande libertà ed erano determinanti nelle strategie politiche familiari e nella gestione dei patrimoni. E tuttavia, le pur numerose Claudia, Turia, Livia, Agrippina non possono essere considerate rappresentative di una realtà femminile generalmente oppressa, disprezzata e sostanzialmente invisibile. Per i romani, il peculiare femminile era costituito dalla vanità, l'unico campo in cui le donne potevano impegnarsi, distinguersi e gareggiare tra di loro: "Dall'alba fino ad ora non abbiamo fatto altro che lavarci, massaggiarci, strofinarci e agghindarci, strigliarci, ritoccarci, truccarci, mascherarci" (Plauto, Poen. 219-223). Se l'ironia plautina è rivolta a una prostituta, nondimeno anche tra le donne per bene, a partire dalla seconda metà del II secolo a.C., aveva cominciato a diffondersi l'amore per il lusso, nei comportamenti, nell'abbigliamento e anche nell'ambito delle pettinature.
Il volume indaga questo aspetto, offrendo un'intensa storia del ritratto femminile e delle acconciature che restituisce modelli, mode, status, ruolo ed età delle donne. I capelli, simbolo privilegiato di bellezza ed elemento di forte provocazione erotica, erano rappresentati secondo precisi stereotipi che rimandavano puntualmente a tipologie femminili o a situazioni del mondo muliebre: raccolti e variamente annodati e acconciati erano esibiti dalle donne di liberi natali della cui purezza e modestia assurgevano a simbolo; scomposti erano propri delle straniere, delle barbare, in una parola delle donne estranee alla civitas e ai suoi valori. Nella cultura romana, i capelli sciolti potevano anche essere espressione di stati d'animo incontrollati, la passione amorosa, l'invasamento divino, il delirio individuale e collettivo, il compianto funebre; durante il parto i capelli andavano necessariamente lasciati liberi, perché qualsiasi nodo avrebbe ostacolato il felice esito dell'evento; il lutto e il pericolo per la patria imponevano alle donne manifestazioni di strazio e di dolore da esibire passis crinibus; la rasatura delle chiome era già una condanna per l'adulterio e la prostituzione. Anche i diversi colori dei capelli rimandavano ad altrettante tipologie di donne e soprattutto a luoghi comuni variamente moralistici: pudichi erano considerati il castano e il nero, seducenti il biondo e il rosso ma sconvenienti e giudicati troppo appariscenti per le matrone, assolutamente inadeguati per le sacerdotesse. Anche nella moda, il modello imperante era tuttavia quello della donna virtuosa che doveva evitare di rincorrere un'immagine ingannevole di bellezza attraverso l'uso di artifici; la pudicizia era un imperativo per tutte le donne sia pagane sia cristiane, e il velo, raccomandato durante la preghiera, era simbolo di devota subordinazione all'uomo e a Dio.
Il volume illustra principalmente l'idea di bellezza che i capelli esprimevano nel mondo romano attingendo a una vasta gamma di documenti: la letteratura, le pitture, i mosaici, i busti e i ritratti che si sono conservati in gran copia, senza trascurare le suggestioni offerte dagli strumenti usati per realizzare le acconciature. I ritratti soprattutto visualizzano le strategie impiegate nel corso dei secoli per restituire la dimensione privata del mundus muliebris, ma altresì per esprimere un sistema di valori, di tradizioni, di modelli che appaiono particolarmente esibiti nei ritratti delle donne della corte imperiale. A partire da Augusto, le imperatrici imposero un nuovo codice di rappresentazione, sorta di vera e propria politica del ritratto finalizzata a stabilire modelli e regole per la società: Livia propose un'immagine allineata alle direttive della morale e della legislazione matrimoniale augustee, alla quale cercarono di sottrarsi, con qualche piccola deroga rispetto al modello, alcune donne della corte imperiale, non a caso presto cadute in disgrazia. In età flavia si imposero acconciature molto elaborate, giocate spesso su un effetto illusionistico del tutto privo di appeal erotico, in armonia con i valori tradizionali imposti dalla casata; ugualmente "dinastiche" furono le chiome di Plotina, moglie di Traiano, sposa optima e sanctissima, e di Sabina, moglie di Adriano, le cui numerose acconciature ufficiali appaiono di volta in volta coerenti con le mosse politiche dell'imperatore.
Il primo cinquantennio del III secolo impose l'uso di pesanti parrucche e di posticci che richiamavano acconciature del periodo precedente, al quale gli imperatori della dinastia severiana desideravano richiamarsi per sottolineare la continuità nella politica e per sostanziare la legittimità del loro potere. Nell'età tardoantica, l'aspirazione alla purezza per le donne cristiane ribadì la tradizione delle chiome raccolte in modo semplice e del velo. Nel volume si apprezza l'ampia offerta di fonti iconografiche e il tentativo, in certa misura riuscito, di individuare nelle comae un elemento in sé gendered utile a seguire, nella costruzione e nella comunicazione delle immagini, la codificazione di un sistema, con le sue declinazioni e le sue deroghe. Va da sé che è indispensabile affiancare questo genere di ricerca a un'attenta e sistematica indagine storica sulla documentazione epigrafica riferita alle donne, la sola che consente – per unanime convinzione – di tracciare una storia che evidenzi la pluralità della condizione femminile, specie nell'ambito del lavoro e della società urbana: l'iconografia, in questo caso, non pare essere sufficiente a dar conto della specificità e, insieme, della pluralità della vita delle donne.
Le numerose proprietarie o responsabili di importanti officine laterizie o le ricche cittadine protagoniste in prima persona di pratiche evergetiche o ancora le grandi latifondiste e imprenditrici erano evidentemente donne autonome e capaci di influenzare, con i loro patrimoni, le strategie familiari, ma si facevano sistematicamente ritrarre secondo i dettami più tradizionali dell'iconografia, imitavano le acconciature ufficiali e perseguivano un modello estetico allineato ai dettami stilistici del mos maiorum. Nel volume si sottolineano infatti con troppa enfasi i segnali di individualità, di autonomia, di presa di distanza dal modello tradizionale che le donne avrebbero espresso attraverso l'acconciatura nel corso dei secoli. In realtà, la sorveglianza sociale delle donne avveniva nei modi più invasivi, tra i quali l'imposizione di modelli estetici che erano soprattutto modelli morali costruiti dagli uomini. La bellezza, sobria e composta, priva di astuzie e di artifici, era lo specchio delle virtù e delle doti che la donna doveva praticare e il volto e la testa avevano il compito di manifestarlo pubblicamente: anche l'immagine estetica era frutto di una costruzione maschile e, attraverso la presentazione "fisica", la donna era chiamata a ubbidire a ruoli che ne esprimevano l'identità e la vocazione, certificando soprattutto i doveri.
Ogni dettaglio dell'acconciatura, ogni gesto o espressione del volto, rispondevano a un lessico ben stabilito che omologava e appiattiva le donne all'interno di ruoli fissi e conformi al mos maiorum; le acconciature delle imperatrici, imitate da tutte le signore che desideravano sentirsi alla moda, non facevano che ribadire severità, austerità e rispettabilità, le doti assunte a sigillo dei valori propugnati dalla casa imperiale: e non sarà stata certamente la serie di piccole file di riccioli ribelli esibita da Livilla e da Agrippina Maior (rispettivamente figlia e nuora di Antonia) a tradire un gesto di autonomia o a soddisfare il bisogno di entrambe di adottare comportamenti poco ortodossi. Per quanta acribia si impieghi nell'indagare l'immagine e il ruolo della donna nel mondo romano, per quanta attenzione si ponga nel rilevare ogni minima deroga al modello tradizionale, si finisce per constatare, necessariamente, l'inflessibilità di una tradizione che inchiodava ogni donna, di qualunque ceto, a ruoli subalterni.   Silvia Giorcelli    

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