È possibile che un libro di poesia dove una sezione centrale si intitola I riccioli della chemio (e parla proprio di quello), dove dolorosamente emergono baracche di campi nomadi demolite da ruspe, cadaveri di assassinati, fosforo che distrugge, uranio impoverito, giocattoli-mina, rifiuti tossici e suicidi lasci al lettore una sensazione di gioia? In effetti la postura che il libro richiede al lettore è indicata fin dal titolo, Come non piangenti, un riferimento al "tempo ormai abbreviato" della prima lettera di Paolo ai Corinti, al capitolo 7: "Da ora in poi, anche quelli che hanno moglie siano come se non l'avessero; quelli che piangono, come se non piangessero; quelli che si rallegrano, come se non si rallegrassero; quelli che comprano, come se non possedessero; quelli che usano di questo mondo, come se non ne usassero, perché la figura di questo mondo passa". Anche quando si piange, quindi, in questa urgenza del tempo, in questo presente di appello e di responsabilità, bisogna farlo tamquam non flentes, come chi non piange. Di questa indicazione possiamo ritrovare, nel libro, una necessità di contemplare con ciglio asciutto il male per meglio individuarlo, colpirlo, per non perderne le connessioni; ma quella paradossale sensazione di gioia che il lettore percepisce è sprigionata probabilmente soprattutto dall'esperienza di seguire una missione compiuta, un dovere realizzato. Compito e senso della poesia e in un modo particolarmente intenso di questa poesia è nominare le cose, chiamarle con il loro vero, giusto nome. E qui questo compito assume proprio la forma di una chiamata, un incarico che viene da fuori: subito, sul bordo del libro, alla sua apertura: "Sbrigatevi, andate. Lasciate ch'io qui / resti ancora a chiamare per nome ogni cosa, / (
) / Che qui resti ancora a guardare, e altri / attraverso il deserto dei rami / tralucano, alberi". E subito dopo, all'inizio di Vicoli,la prima sezione del libro: "Ciascuna delle cose che non viene nominata / è per sempre perduta, mi hai detto". E ancora, più addentro, in quella successiva, L'angelo smemorato: "C'erano anche i nomi, credo / quelli che uguali diamo a ogni cosa / e agli alberi, di cui pure dovremo / in uno dei giorni parlare". Gli alberi, come si vede già da queste poche citazioni, sono tra i protagonisti della poesia di Alziati. Da questo compito di "chiamare per nome ogni cosa" non deriva però una ricerca del vocabolo-gemma preciso e prezioso (benché si arrivi a nominare anche il fiore del cisto o il frutto del gelso) né deriva una poetica in qualche senso magica, che riassegni alla poesia il gesto primigenio di Adamo del nominare la pluralità della creazione. Si mantiene invece una necessità severa, che nel precedente libro dell'autrice (A compimento, Manni, 2005) conduceva alla ricerca di un preciso nome zoologico nel dizionario, "dentro l'assedio / di una notte insonne", proprio nel momento in cui si richiamavano e si accusavano puntuali, reali scenari di guerra. Sentire il compimento di questa esigenza nelle parole di Come non piangenti è una prima istigazione alla gioia. La seconda sta in un altro paradosso: il mondo che i tagli di luce di queste poesie descrivono è segnato profondamente dall'instabilità, dalla labilità: ci sono ovunque a ogni livello del testo crolli, terremoti, guerra, cancro. Malattie sociali, malattie morali, malattie terribilmente carnali. Eppure questa fortissima presenza della morte, della malattia e dell'orrore è prima di tutto l'origine di uno slittamento, di uno spostamento rispetto alla percezione quotidiana. "Il tempo è ormai abbreviato", per tornare a Paolo: "La figura di questo mondo passa". La figura decisiva della gioia, della bellezza, pronunciata da questo libro è pertanto in stretta connessione con un'esigenza di cambiamento radicale, con la trasformazione, con la rivoluzione: "Tornerò a sciogliermi, più tardi / dentro il tempo archimedico, del mondo / presso la rosa, che non è la rosa / che è diventare una rosa". Le forme dello scarto, dello slittamento, del cambiamento vivono anche nelle inserzioni di parole e frasi latine, dal Cantico dei Cantici in primo luogo: voci che nell'intenzione di Alziati devono circolare tra i versi come un registro sovrapersonale, che può essere la voce di ciascuno e di tutti. Oppure si espirmono nell'immissione, in una dizione apparentemente piana, di lessico aulico, di forme arcaiche. Ma di poco, come nota Fabio Pusterla, che parla di un tono "leggermente solenne, ma di una solennità appena accennata". Come quella prodotta dagli iperbati e dalle ripetizioni di una delle poesie più intense, Ricapitolazione: "quando dico terra, / è disfarla, dico, la terra è farla". D'altra parte, sempre lì, poco prima, avevamo letto: "In una notte come questa, e lontana / qualcosa mi aveva inciso nella mente / come elenchi i nomi". Nello stesso modo doloroso, irrevocabile e decisivo l'"ago del mondo" entrava una volta per sempre nel passato originario della Partenza di Franco Fortini. Il poeta, guarda caso, che per primo riconobbe la voce di Cristina Alziati. Davide Dalmas
Leggi di più
Leggi di meno