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Basterebbe forse evidenziare sei termini contenuti negli undici versi della poesia che apre il volume di Nicola Vacca (amputare, sangue, massacro, dolore, terrore, uccidere) per individuare il leitmotiv dell’intera raccolta. Che è indubbiamente la violenza: quella patita e quella esercitata dall’uomo, dalla storia, dalla natura, da un dio irascibile e oscuro. Violenza ingiustificata e mai giustificabile, ribadita ossessivamente nei sostantivi (guerra, orrore, mattanza, inferno, odio, squartamenti, carneficina, strage, necrosi, macelleria, ferocia, annientamento, crollo, ammazzatoio…), nei verbi (azzannare, annegare, sanguinare…), negli aggettivi (orribile, crudele, straziato, osceno, feroce, sporco, agghiacciante…). Allo scandalo del male il poeta può opporre solo una denuncia indignata, ferita, rabbiosa. Lo fa usando uno stile prosaico, sentenzioso, a tratti declamatorio, che può ricordare il timbro apocalittico dei profeti biblici, nella sua perentoria assertività: «Quello che manca oggi è l’imperativo di uno schianto», «Siamo niente in un paesaggio di rovine», «Ognuno ha la sua terra desolata». La sua è una vox clamans che disdegna rime, assonanze e qualsiasi artificio letterario, quasi avvertisse lo scrivere in versi inadeguato, o addirittura immorale («Dopo Auschwitz, nessuna poesia», ammoniva Adorno) rispetto alle atrocità commesse quotidianamente dagli uomini contro i propri simili. “Commedia”, quella che viviamo: finzione “ubriaca”, illusione di contare nella mente degli altri o almeno di un dio, quando invece non serviamo a nulla, se non a danneggiarci a vicenda: «noi siamo già morti». Come giustamente afferma Alessandro Vergari nella sua colta prefazione al volume, Vacca descrive il degrado antropologico della nostra contemporaneità con «urgenza e inquietudine», con una perpetua «sensazione di accerchiamento e controllo», affidandosi a un’analisi spietata del reale che ci stritola nei suoi impietosi ingranaggi.
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