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Nel suo lavoro Guerra parte da una premessa centrale: il comunismo non è stato, come sostenuto da Furet, un corpo unitario e compatto. Sono esistiti comunismi diversi, che, pur nati nel solco dell'Ottobre, hanno posto radici nelle diverse realtà nazionali, contribuendo alla costruzione della democrazia, alla difesa dei diritti individuali e collettivi, trasformando i sudditi in cittadini. È soprattutto il caso del Pci, sul quale gli studiosi non hanno osservato un "assordante silenzio", ma hanno contribuito a metterne in luce la specificità, la "diversità" di un'esperienza densa di luci e di ombre. Non sfugge all'autore il pericolo di un "uso scriteriato delle fonti", che ha finito con il rimuovere il passato e accreditare tesi apodittiche e unilaterali. Il "feticismo delle fonti" rischia di fare una storia "virtuale", avulsa dai contesti reali. Alimentando una "visione cospirativa della storia", fondata su incontri segreti e complotti. Il che porta a ignorare il "lungo periodo" dei processi e delle trasformazioni strutturali delle società. Ciò nondimeno, proprio dalle fonti parte Guerra, notando come i documenti ora disponibili (soprattutto gli archivi di Mosca e il Diario di Dimitrov) riaprano la discussione antica sulla svolta di Salerno.
Togliatti, del resto, sin dal 1941 (dopo, a dire il vero, la fine traumatica del patto nazi-sovietico), delinea la strategia unitaria, nazionale, e democratica, del Pci, ponendo al centro la lotta antifascista e dedicando grande attenzione alla questione italiana. Eppure - nota l'autore - nel 1938-1941 Togliatti è costretto a operare in una condizione di isolamento. Viene sottoposto alle critiche dei comunisti spagnoli e alla vigilanza dell'apparato sovietico. Senza contare la questione delegata a Tatiana Schucht, la cognata di Gramsci. La volontà di screditarlo culmina con l'invio a Ufa, a svolgere compiti di propaganda. Significativa, poi, è la lettera che indirizza a Bianco il 3 marzo 1943, nella quale affiora tutta la sua amarezza, assieme a una fosca profezia ("Un bel giorno però daranno la colpa a me!").
Togliatti non cessa tuttavia di riflettere sulla situazione italiana. Da un lato, indica una prospettiva strategica nuova, fondata sul rifiuto del modello sovietico (nel discorso del 26 novembre 1943); dall'altro, esprime dubbi sulla linea da tenere nei confronti di Badoglio, come confermano le lettere a Dimitrov del luglio-ottobre dello stesso anno. Dubbi che nascono dall'intransigente pregiudiziale antimonarchica emersa dal congresso del Cln di Bari (gennaio 1944), così come dal crescente interesse dell'Urss per il Mediterraneo, che culmina nel riconoscimento del governo Badoglio. E vi è infine, tra Milano, Roma e Napoli, la serrata discussione all'interno del Pci. Faticosamente, d'altra parte, la linea di Togliatti s'impone nel Pci. E l'incertezza verso Badoglio e la monarchia riaffiora nelle due redazioni del documento elaborato da Togliatti il 1° marzo 1944. Sarà dunque il colloquio tra questi e Stalin a sciogliere i dubbi, a conferma del ruolo svolto dal leader Pci nell'orientare le scelte di Mosca. Le fonti oggi note su quell'incontro, e segnatamente gli appunti del Diario di Dimitrov, confutano la tesi sostenuta da Narinskij di un Togliatti mero esecutore delle direttive di Stalin. Non vi è dunque una svolta, ma il tormentato approdo di un disegno di lungo respiro.
Nel dipanarsi della vicenda, Guerra sottolinea la dialettica tra il "partito di Mosca" e quello "dell'interno": una formulazione originale e ardita, che contribuisce a chiarire l'esperienza del Pci e del movimento comunista nel lungo dopoguerra, e che trova conferma nella nascita del Cominform (1947). A Szklarska Poreba hanno infatti luogo due conferenze: quella proposta da Gomulka, e quella imposta da Stalin, la cui concezione del campo socialista risale - come dimostra l'autore con il supporto del Diario di Dimitrov - al 1941. Nel 1947 il Cominform si impone su tutti i partiti comunisti europei, determinando un ritorno allo stalinismo totale che è "fuorviante" leggere solo come risposta sovietica alla dottrina Truman. Più che con una "guerra fredda", si ha infatti a che fare con una "pax armata americano-sovietica", com'è stato notato. Inoltre - argomenta l'autore - la guerra è considerata possibile da Stalin: tuttavia, la consapevolezza di non poterla affrontare nel medio periodo testimonia di una paura che impone di guadagnare tempo attraverso la rinuncia a ogni ipotesi espansionistica e l'arroccamento. Nel "dittatore insicuro" (come Mastny ha definito Stalin) l'esigenza di un rigido controllo sulla propria sfera d'influenza non alimenta alcuna spinta insurrezionale, ma riduce, sin quasi ad annullare, l'autonomia dei vari partiti.
Difficile, comunque, per Togliatti, è far vivere la sua politica di fronte alle leggi ferree della disciplina staliniana, condivise dai vertici del Pci. Sottoposto a un controllo che ne indebolisce la leadership, egli non manca di tentare una mediazione fra Tito e Stalin dopo la "scomunica" della Jugoslavia nel giugno '48 (che conferma come il campo socialista sia unito solo in apparenza) e cerca di limitare i danni che l'opzione "internazionalistica" produce sul partito nuovo. Il suo rifiuto di assumere la guida del Cominform nel 1951 - scrive Guerra - implica una critica di fondo alla politica di Stalin. Di qui il rifiuto dell'arroccamento e il costante impegno a favore del dialogo con la società italiana, che contribuisce alla nazionalizzazione del Pci.
Si pone ora un nodo fondamentale: lo stalinismo di Togliatti. Secondo Guerra, Togliatti non è stalinista, "neppure moderato", laddove si pensi alla sua formazione, al suo storicismo di derivazione ottocentesca, e all'eredità gramsciana. Ma, come già negli anni trenta, egli sceglie di accettare lo stalinismo come tributo inevitabile da pagare per non far fallire il progetto. Il suo "realismo" lo rende prigioniero dell'"oggettività storica" e lo induce a confinare nel foro interiore le proprie convinzioni in nome di "una valida posizione politica".
Nel 1956, poi, il XX Congresso, com'è noto, sembra aprire nuove speranze. Momento cruciale - nell'analisi di Guerra - è la lettera di Togliatti al Pcus del 30 ottobre: in quel documento, così come nel modo di porsi di fronte al Rapporto segreto di Chruscev, Togliatti non coglie la "necessità storica dell'alternativa antistalinista" e - come in un contrappasso della lettera di Gramsci del '26 - invita i sovietici a stabilire un'intesa con i "partigiani di Stalin". Di fronte alla crisi polacca e all'ottobre ungherese, Togliatti conduce una lotta su due fronti, preoccupato delle scelte di Chruscev e delle conseguenze per lo stesso Pci, nel quale il dissenso è assai acuto e sembra incarnarsi nella figura di Di Vittorio, "Gomulka italiano".
Immenso è il prezzo pagato sull'altare della "solidarietà internazionalistica". Ma l'elaborazione teorica di Togliatti, soprattutto dopo il XXII Congresso del Pcus, e all'indomani dell'infuocato Comitato centrale del novembre '61, sino al Promemoria di Yalta, pare delineare un nuovo giudizio sullo stalinismo. Il documento politico che egli, alla vigilia della morte, redige nell'agosto '64 in Crimea, con la proposta di un compromesso tra Mosca e Pechino, se implica l'ammissione della fine dell'unità del movimento e il crollo del disegno di un'intera vita, nondimeno lascia intravedere in Togliatti un "atteggiamento nuovo, libero e liberato" verso l'Urss, con un'inedita, ancorché embrionale, capacità di misurarsi con lo stalinismo e con la crisi strutturale del sistema sovietico.
Nel corso degli anni successivi, si moltiplicano i contatti tra i comunisti italiani e gli esponenti del dissenso dell'Est. Ma - argomenta Guerra - il confronto con quella realtà, che avrebbe imposto agli eredi di Togliatti di fare i conti con il passato, e di rinunciare al "realismo" della politica, non si traduce in una "critica radicale del socialismo sovietico". Al di là della vexata quaestio in merito agli aiuti finanziari, e ai ricatti del Pcus nei confronti del Pci di Berlinguer, è soprattutto - secondo l'autore - la fiducia nella riformabilità dell'Urss a impedire di giungere a una rottura, che viene sfiorata, di fronte alla Primavera di Praga e nell'ottobre '78, ma mai compiuta del tutto. Eppure - nota Guerra - Berlinguer consuma uno strappo "non solo politico, ma culturale, e persino antropologico", spezzando un "vincolo di appartenenza a radici comuni". Ciononostante, in quegli anni, senza che si cancellino le esperienze e le conquiste di più generazioni, si determina proprio la fine dell'utopia "italiana" di un comunismo democratico.
Marco Galeazzi
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