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Per la prima volta, in un unico volume organico tutta la poesia di Ferruccio Benzoni.
«Da poco gli amanti sono dissolti
umidi e stanchi. È quasi l’alba.
Ah, io bevo e a mia madre so scippare
Dal suo fodero d’abete un po' di vita ancora
– miserabile calore».
Se si volesse tentare di redigere il catalogo della poesia del Novecento italiano, si tratterebbe d'un lavoro difficile, arduo, forse impossibile. Vale quindi il tentativo di aver tolto Ferruccio Benzoni dall'ombra nella quale poteva cadere. La sua poesia era ed è il passo notturno delle "musiche" di attesa e stupore, d'una arresa triste dolcezza che guarda e ascolta il quotidiano andarsene del giorno. La sua poesia si fa compagna nella discrezione, nell'etica della decenza, nell'umiltà severa che traccia la linea invisibile del lento pedalare verso casa. Così, in "Numi di un lessico figliale": "Nel verde dei suoi occhi aguzzi riarde un mio futuro di metrica e di vita. Di polvere e di metrica per l'esattezza con cui ho composto i miei vivi in marmo. Ma spiove intanto: i fiori che lei ama avranno tregua". Gli era caro il segreto silenzioso di un privilegio: quello del dolore che non dà tregua e riconcilia, quanto più è forte, con la vita, consegnandole la cifra indelebile di una adesione "appassionata". La sua poetica dice di sé quel che può essere compreso e trattenuto a lume di un senso lontano. Ogni volta è il bisogno di non lasciar al niente il miracolo della bianca pianura della pagina. Da "Fedi nuziali": "Solo adesso potrei dire che l'inverno rifonde tenendole per sé le memorie". (Francesco Scarabicchi). Introduzione di Massimo Raffaeli.
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Saluto con grande gioia la ristampa delle poesie di Benzoni. Poeta della fine del secolo che correva il rischio di essere dimenticato. Restituire importanza alla sua opera leggendolo è un dovere di ogni amante di poesia.
Benzoni è stato una figura marginale, benché rilevante, nella storia della nostra letteratura novecentesca: non tanto per la qualità o quantità della sua produzione in versi, quanto invece per la sua irriducibilità caratteriale alle mode prevalenti in ambito letterario. I debiti che il primo Benzoni riconosce alla poesia italiana del secondo ’900 sono riscontrabili nella preziosità lessicale e in numerosi incipit montaliani, nelle titubanti interrogazioni di Caproni, nella oggettiva discorsività sereniana (Vittorio Sereni fu per lui faro intellettuale e guida paterna), nell’esibita intenzionalità comunicativa di un “tu” a cui appellarsi (un tu con “valore individuale e insieme universale”, come sottolinea Massimo Raffaeli nella prefazione). All’interno della produzione più matura, si emancipa invece dalle eredità letterarie del nostro dopoguerra, trovando una voce più decisamente sua, meno espansiva e talvolta addirittura criptica, in uno stile più asciutto e nervoso, in una sintassi franta e complessa, in scelte formali innovative che introducono frequenti neologismi, anastrofi, allitterazioni. E poi l’uso frequentissimo di parentetiche e di gerundi che rimandano a un discorso sempre sospeso, volutamente aperto a soluzioni parimenti temute o sperate. Tuttavia, ciò che più caratterizza la poetica benzoniana non sono tanto i requisiti stilistici, quanto il tono di assoluta e pudica discrezione, di rassegnata malinconia, di pacata umiltà con cui si rapporta all’esistere: cifre di un consapevole e desiderato appartarsi dal brusio confuso del mondo. Nonostante il bene e il bello intravisto e riconosciuto, lo smarrirsi nel proprio inarrestabile dolore, la volontaria clausura entro confini avvertiti come invalicabili, in un continuo “deragliamento dalla vita”, è in questo poeta un lento, inarrestabile avvicinarsi alla morte: “Torna alto il silenzio. S’invola”.
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