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scheda di Mancia, M., L'Indice 1995, n. 7
Parlare di fine analisi significa anche porsi la domanda sulla finalità delle analisi stessa. Per l'autrice, questa riguarda nel suo insieme la relazione tra analista e paziente. In una parola la finalità dell'analisi è la "trasformazione della coppia analista-paziente". Ne consegue che la parola fine non può che essere pronunciata all'interno di quella specifica relazione, dove compaiono fantasie e sogni, pensieri e agiti che possono avere a che fare con la fine analisi e con quello che ciò comporta: separazione (tra Sé e l'aggetto) e separatezza (come acquisizione di un'identità separata). Non è forse uno scopo dell'analisi, almeno nel pensiero di Winnicott condiviso da tanti analisti di oggi, quello di "dare al paziente l'opportunità di fare l'esperienza della separazione"?
Tutto ciò è reso possibile dal processo analitico e dal sentimento del "tempo" che questo comporta. Tempo lineare che scandisce il passare degli anni e l'accumularsi delle esperienze fino al lutto della separazione, ma anche tempo circolare per la ritmicità degli incontri dove la ritrascrizione della memoria permette una riattribuzione di significato a un'esperienza passata (concetto questo indicato da Freud come 'Nachtraglichkeit').
È questa l'essenza del transfert che, interpretato nel presente, perde la sua forza coagulante e sintomatica e a un tempo permette la ricostruzione del mondo interno del paziente e una sua storicizzazione.
Gilda De Simone si domanda: "Abbiamo bisogno di una tecnica particolare per concludere un'analisi?". E risponde che la conclusione di un'analisi è una questione che interessa in egual misura i componenti la coppia analitica. C'è un momento, in ogni incontro analitico, in cui il paziente direttamente o con un sogno annuncia la sua fantasia di finire la sua analisi. È il momento definito da O. Flornoy come "atto di passaggio", intorno al quale è necessario lavorare. Questo infatti può mettere in moto modalità difensive sia del paziente che dell'analista. Difesa giustificata da quello che l'autrice molto giustamente chiama un paradosso della psicoanalisi: essa "termina proprio quando è diventata più creativa e piacevole", quando cioè il paziente ha acquisito "portanza", che riguarda l'autonomia e la capacità di essere solo.
Esiste però un pericolo di interminabilità in quei casi definiti difficili, dove il paziente mette in opera difese dalle ansie di separazione: agiti, esplosioni psicosomatiche, reazioni terapeutiche negative, rovesciamento della prospettiva, perversione del transfert, caratterizzata quest'ultima da un conflitto espresso apertamente e vissuto nei confronti del setting analitico e della persona dell'analista. La reazione terapeutica negativa può arrivare all'interruzione dell'analisi, esperienza questa traumatica anche per l'analista, il quale può vivere e agire nei confronti del suo paziente sentimenti di disperazione per sentirsi tradito e risentimento fino all'odio.
È necessario inoltre non dimenticare che il paziente è comunque impegnato dopo la fine dell'analisi in un lavoro che gli permetterà di vivere la nostalgia, rendere sempre più pensabile il non pensato, rielaborare conflitti dell'area depressiva, riattivare operazioni moderate di scissione che aprono la possibilità di nuove trasformazioni. Ma la De Simone consiglia di non enfatizzare la necessità di un'autoanalisi successiva alla conclusione della terapia. È l'assetto interno che l'analista ha conferito al paziente a permettere a quest'ultimo un lavoro autoanalitico che attivi anche la sua capacità a tollerare l'incertezza e le inevitabili frustrazioni che la realtà offre a ogni individuo. Adattamento alla realtà - si domanda la De Simone - o reazione alla stessa per modificarla? L'essenza del saper vivere, conclude l'autrice, è nella capacità di integrare le proprie passioni in rapporto alla realtà in cui esse possono soddisfarsi.
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