Dopo una primavera frenetica, in cui gran parte del corpo accademico italiano ha investito molte delle proprie energie nel tentativo di rispondere alle richieste del ministero in relazione alla Valutazione quadriennale della ricerca (Vqr), talvolta sfinendosi nel tentativo di superare difficoltà pratiche e cavilli burocratici, altre volte disperandosi dinnanzi all'impossibilità di sottoporre un numero di prodotti di ricerca sufficiente a evitare penalizzazioni alle strutture di afferenza nella successiva fase di distribuzione delle risorse economiche, sarebbe bene ricominciare a riflettere sugli effetti che potrebbero derivare dalle nuove pratiche di valutazione sulle quotidiane prassi di ricerca e, più in generale, sul ruolo della concorrenza in ambito accademico. A tale fine, si consiglia vivamente la lettura del breve, lucido e incisivo saggio di Francesco Magris, che, da una prospettiva prevalentemente ma non esclusivamente economica, si interroga sulla legittimità di equiparare (sia de facto che de jure) la concorrenza nella ricerca scientifica alla concorrenza economica, quale astrattamente descritta dai postulati dell'economia neoclassica. Procedendo per analogie e differenze, Magris osserva tra l'altro che l'attuale natura delle pratiche di valutazione, oggi principalmente basate, in Italia come all'estero, su assai discutibili "classifiche" delle riviste scientifiche e sull'incerta affidabilità di indicatori bibliometrici, assomiglia molto più a una situazione di oligopolio che a una situazione di concorrenza perfetta; più a una "dittatura della maggioranza" (o dei mainstreams) che a un pluralismo democratico, in cui possano effettivamente aspirare ad avere voce e ottenere credito correnti minoritarie o singoli pensatori "atipici" (non di rado portatori di idee originali e innovative). Domandandosi come sia possibile valutare in modo equo il rendimento "di coloro il cui compito è pensare, riflettere, allargare il campo del sapere umano" ed eventualmente premiare i migliori in base alla qualità del loro lavoro scientifico (della qualità della didattica, purtroppo, l'autore non si occupa), Magris osserva anche, assai opportunamente, come le "idee" non siano "riducibili e assimilabili agli altri beni economici", per una molteplicità di ragioni individuate e argomentate con maestria. Tra queste cui forse altre potrebbero aggiungersi (magari riflettendo sull'eventuale "divisibilità" delle idee e sul loro essere soggette a vari tipi di "consumo") mi pare da evidenziare il ruolo che Magris attribuisce al "fattore tempo": un fattore che certamente contribuisce a definire il carattere sui generis dei prodotti della ricerca (il loro essere, in ultima analisi, "idee" rese pubbliche nell'ambizione di divenire "beni collettivi", eventualmente "utili" a migliorare qualche aspetto della società, oltre che a contribuire al progresso della conoscenza). In proposito l'autore scrive, con gradevole ironia, che "forse Kant non si sarebbe accinto a scrivere la Critica della ragion pura, che gli ha richiesto tanti anni di studio e fatica, se si fosse scontrato con il vincolo della sopravvivenza economica e culturale". Tra le molte, importanti tesi asserite e abilmente argomentate, una soltanto, forse, non è completamente inattaccabile: la pretesa che "l'impossibilità di far uso del criterio falsificazionista in gran parte delle scienze umane tra cui l'economia rende a sua volta possibile l'utilizzo della teoria ai fini della promozione di qualche specifico interesse di parte". Pur senza avventurarsi in antichi dibattiti metodologici intorno ad aspirazioni o disillusioni monistiche, sembra meritare qualche problematizzazione il carattere "mediato" del nesso (in effetti possibile) tra la (presunta) impossibilità di distinguere il vero dal falso su basi empiriche nelle scienze umane e la licenza (che secondo l'autore da ciò può derivare) a servire, proprio attraverso la ricerca scientifica, interessi di parte: una mediazione che, quando si traduca non solo in esplicite dichiarazioni di relazione ai valori, ma anche in sforzi argomentativi volti a giustificarne la bontà intrinseca o a esibirne la bontà delle conseguenze, permette di conferire una particolare oggettività al sapere "prodotto" dalle scienze economico-sociali (preservandone almeno la possibilità di realismo). Nelle conclusioni, dove pure non si propone una soluzione a un problema così difficile, non nuovo, ma nuovamente attuale, quale è quello della valutazione della ricerca e della selezione del corpo accademico in base al merito, Magris dà prova di saggezza nel denunziare "chi ricava un piacere fisico, un fremito quasi erotico, a mettere in ridicolo l'Italia, a ingigantirne i difetti e ad enfatizzarne le magagne", invitando a "valorizzare e mantenere in vita una tradizione culturale, scientifica ed economica che in certi frangenti storici è stata all'avanguardia mondiale e la cui spinta propulsiva non si è ancora del tutto esaurita". Anche perché ispirato da onesto realismo e misurato ottimismo, quindi, il libro di Magris trova piena ospitalità tra quei (pochi) volumi recenti dedicati allo stato delle nostre università che "L'Indice della scuola" intende promuovere. Fiammetta Corradi
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