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Conoscere qualcuno, capirlo, comprenderne a fondo le virtù e gli svarioni, l'orma della soggezione e gli affondi convinti, e muoversi per come è possibile fra le scelte di una parola che passi sicura fra le fragili crune del silenzio. Gli uomini restano pozzi di solitudine nei quali l'identità somiglia a un sasso che cade e cade senza rilasciare un rumore né offrire un'idea di distanza fra l'io e i suoi traguardi, foglie sospese, oscillanti a mezz'aria in un tremolante Autunno del pensiero. Non resta a quel punto che "accettare i termini che la vita ti impone, fino al punto di accettare....la finzione". E' l'unico modo per aggirare ogni sforzo e ogni sfida, quel vano confidare in doti e risorse che nessun futuro potrà mai leggere e premiare nei suoi giusti caratteri. Ecco l'estraneità che imprigiona, che stringe i nervi con nodi troppo accurati, pur dentro la propria stessa carne e il proprio sangue, in rapporti fra padri e figli o fra mariti e mogli che possono dunque somigliare, alla fine, a quelli fra vicini di cella che scontano ognuno il proprio destino: "Tra il non sapere ciò che gli altri vogliono da noi e il sapere ciò che noi dovremmo chiedere agli altri si commettono certi errori!". La trama cammina come a passi di giallo; un giovane viene misteriosamente assunto da un uomo d'affari quando in realtà quest'ultimo non ne avrebbe bisogno. O forse si, sbagliamo, e invece quella è l'unica persona che egli vorrebbe accanto? Si somigliano in un preciso elemento, e si somigliano come la maggior parte degli uomini: vorrebbero fare altro della loro vita, altri sogni, altre fughe gli dimorano nell'animo. Restare allora? Lasciare? Ripartire? Rassegnarsi? Leggiamo: "Niente che ho fatto mi ha mai dato quell'appagamento, quello stato di piena spossatezza e pace che giunge mentre si muore dando vita a qualcosa". Dramma del senso, della discendenza e del conformismo, ma anche raro brillio di libertà. Si può sempre scegliere ci dice Eliot, sebbene non appaia mai semplice.
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