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Più che un'indagine, la lettura di questo libro mi ha dato l'impressione di uno sfogo, del quale non mi azzardo a tentare di intuire le cause. L'autore, che è medico e psicoanalista proprio come Lacan, dichiara ripetutamente di trovare "incomprensibile" la lettura dell'opera di quest'ultimo: fatta questa premessa, egli espone critiche, talvolta derisorie, sia sul valore scientifico che anche sulla persona del suo collega francese. Dal mio misero punto di vista, a me non pare che si tratti di un'impostazione metodologicamente corretta: come posso permettermi di criticare (e ritenere poi anche degne di esser pubblicate le mie considerazioni al riguardo), ad esempio, un'opera d'arte, o un compimento intellettuale, o una scoperta scientifica, se dichiaro in premessa di non comprenderli? Mancando la comprensione, sono ovviamente del tutto assenti nel libro ragionamenti circostanziati o critiche ficcanti sul sistema di pensiero lacaniano, salvo alcune osservazioni virgolettate riprese da altri autori. Ferma restando l'incomprensione, a me sembra che il vero punto di contrasto di fondo tra Caruso e Lacan abbia ad oggetto l'individuazione del fine della psicoanalisi: per l'a. resta assorbente l'imperativo di Ippocrate (espressamente richiamato), ossia "curare le persone" e le loro sofferenze; mentre invece, dal suo punto di vista (citando Žižek), per il collega francese esso sarebbe quello di creare "una teoria e una pratica che pone l'individuo a confronto con gli aspetti più profondi dell'esperienza umana". Divergenza più che legittima, s'intende: ma che non sono sicuro possa legittimare i contenuti di questo libro.
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