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recensione di Scatasta, G., L'Indice 1996, n. 5
Ci sono autori che hanno una particolare abilità nella scelta dei loro titoli, o almeno agenti letterari o redattori editoriali che li consigliano sapientemente: nella massa di libri in vendita, un titolo provocatorio e sensazionale può incuriosire e predisporre all'acquisto. Ma John McPhee, americano, collaboratore del "New Yorker", non sembra interessato a tale sotterfugio. Un altro dei suoi libri, pubblicato in Italia sempre da Adelphi nel 1987, aveva in realtà un titolo decisamente originale, "Il formidabile esercito svizzero", ma offriva onestamente proprio quel che prometteva dal momento che era davvero uno studio sull'esercito svizzero. Neanche il titolo di questo suo ultimo libro, Il controllo della natura, inganna il lettore, anzi se possibile è ancor più onesto perché non lascia supporre intenti metaforici (in fondo "Il formidabile esercito svizzero" poteva essere il titolo di un romanzo surrealista o di un libro di fiabe antimilitariste): nella sua totale trasparenza trasmette perfino una serietà e una gravità che si ritrovano puntualmente nelle pagine interne.
Si tratta dunque, come il titolo dichiara, di un libro che testimonia tre tentativi fatti dagli esseri umani per controllare la natura: la costruzione di un sistema di dighe per impedire che il Mississippi cambi il suo corso, rovinando così l'economia della Louisiana e la vita di milioni di persone; il raffreddamento della lava eruttata da un vulcano in un'isola islandese, con accenni ai tentativi fatti per trovare una soluzione a un problema analogo nelle Hawaii; e infine la costruzione di giganteschi bacini per contenere i detriti che precipitano sulle villette nei sobborghi di Los Angeles a ridosso della catena di San Gabriel quando si danno particolari condizioni che si ripetono all'incirca ogni decennio. Data la singolarità degli argomenti trattati, dai quali l'autore non tenta saggiamente di trarre insegnamenti universali o normativi, il problema immediato che pone questo libro è quello del pubblico a cui si rivolge: è probabile che un geologo riterrà superfluo questo libro dal tono divulgativo e "letterario", mentre un lettore ignaro dei problemi che incontrano i suoi simili in Louisiana, in Islanda e a Los Angeles, e tutto sommato indifferente a essi, rischierà di annoiarsi terribilmente dopo aver letto dieci pagine e, sfogliato il libro e visto che il tono più avanti non cambia, deciderà di passare a letture più coinvolgenti.
Non mi azzardo a parlare a nome dei geologi o degli esperti degli argomenti trattati, ma per quanto riguarda il lettore comune direi che se facesse quanto ho appena prospettato commetterebbe un peccato. Niente di imperdonabile, ma perderebbe comunque qualcosa. Innanzitutto, leggendo fino in fondo questo libro imparerebbe molte cose nuove, il che non nuoce mai: McPhee è molto abile quando deve spiegare questioni squisitamente tecniche, tanto da riuscire a far capire a un lettore come me, refrattario alla scienza in ogni sua manifestazione o quasi, i misteri della lava o delle chiuse del Mississippi. In secondo luogo la lettura non avvince certamente come un romanzo di Ellroy ma ha un proprio, piacevole ritmo che tiene sempre sveglia l'attenzione del lettore. Non mancano passi francamente noiosi, in cui viene da chiedersi perché mai l'autore si occupi di tali problemi e soprattutto che cosa lo spinga ad affliggere anche noi. McPhee possiede però una serie di doti invidiabili, degne di un abile romanziere, che consistono nel presentare i suoi argomenti in forma narrativa, facendo seguire a rapide digressioni tecniche ritratti di personaggi tratteggiati in poche righe, nello spezzare il filo della storia per riprenderlo quando stiamo per dimenticarla e ricatturare immediatamente l'attenzione, nell'inframezzare la narrazione stessa con interviste, testimonianze, ricordi in prima persona e inserti vari.
Memorabili, a questo proposito, sono alcune pagine che si trovano quasi alla fine del libro: dopo aver scoperto che si continua impunemente a costruire sul luogo in cui c'è stata di recente una frana che ha spazzato via ogni cosa e a vendere nuove villette a persone ignare della situazione di pericolo, McPhee telefona a varie agenzie immobiliari di Los Angeles chiedendo informazioni sulle case messe da loro in vendita nella zona. Nel libro sono riportate di seguito le laconiche risposte dei venditori, che negano quasi all'unisono ogni pericolo per la casa da loro trattata (ma non escludono problemi per quelle della valle accanto, trattate probabilmente da altre agenzie), mentre McPhee si limita, senza alcun commento, a ricordare di tanto in tanto al lettore il disastro che si è verificato nello stesso punto qualche anno prima.
Ma John McPhee non è Bruce Chatwin. Tracciare questo paragone è forse ingeneroso, ma non riesco a farne a meno. Se entrambi sono (erano) mossi da un'incredibile curiosità, dal desiderio di dare corpo alle loro ossessioni e verificare ogni cosa personalmente, McPhee non possiede però quella forza tipica di Chatwin che riusciva a far sembrare non soltanto interessante ma fondamentale per chiunque la geomanzia cinese. Entrambi sono (erano) ottimi narratori, scevri della preoccupazione di scrivere con intenti artistici (dalla quale Coward mise in guardia Chatwin), capaci di restituire nella concisione di poche righe intere esistenze senza peccare di superficialità, ma McPhee sembra sotto certi aspetti meno leggero, più attaccato alla terra e alla sua materialità, incapace, come Chatwin, di spostarsi con esaltante rapidità da un luogo all'altro e da una cultura all'altra.
Forse influenzato dal suo argomento, McPhee sembra a volte lento come il Mississippi, altre volte denso ma pesante come una colata di lava o di detriti. Ma almeno non possiamo lamentarci di essere stati ingannati: era già tutto implicito nel titolo.
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