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recensione di Boni, S., L'Indice 1997, n. 5
(recensione pubblicata per l'edizione del 1996)
Pubblicato l'anno scorso da Norstedts e tradotto con sollecitudine da Garzanti, il nuovo romanzo del grande regista svedese ci riconduce a quella che sembra essere un'ossessione narrativa di uno dei protagonisti più significativi della cultura nordica del dopoguerra: il rapporto con e tra i genitori. Com'è noto, Bergman ha abbandonato il cinema nel 1983 e, più recentemente, ha lasciato anche il teatro per dedicarsi a tempo pieno alla scrittura. Questa sua attività è, tuttavia, di un tipo tutto particolare. I romanzi finora pubblicati, "Con le migliori intenzioni" (1991), che racconta l'innamoramento e i primi anni di matrimonio dei coniugi Bergman, e "Nati di domenica" (Garzanti, 1993), una sorta di resoconto sull'infanzia dell'autore, infatti, sono stati pensati per essere trasposti cinematograficamente, sebbene la regia sia stata affidata rispettivamente al danese Bille August e a Daniel Bergman, uno dei figli dell'autore. Anche "Conversazioni private" diventerà presto un film diretto da Liv Ullmann, l'attrice norvegese che ha a lungo vissuto e lavorato con Bergman. La scrittura bergmaniana denuncia quindi, esplicitamente, la sua natura cinematografica, con precise ed essenziali descrizioni di luoghi e ambienti, con dialoghi complessi e articolati e con veri e propri "avvicinamenti" ai personaggi che mimano i movimenti della macchina da presa. Del resto, nella prefazione a "Con le migliori intenzioni", Bergman confessava: "Scrivevo così come da cinquant'anni sono abituato a scrivere: in forma cinematografica, drammatica".
Come anticipato, "Conversazioni private" torna a raccontare la vita dei genitori dell'autore svedese, anche se in quest'occasione l'autobiografismo non è denunciato e gli interventi in prima persona del narratore sono ridotti al minimo, senza fornire indizi sul suo coinvolgimento con i fatti narrati. Inoltre risulta impossibile comprendere il grado di affabulazione al quale gli eventi realmente accaduti sono stati sottoposti. Attraverso cinque conversazioni, cui fa seguito un epilogo-prologo, Bergman racconta la storia d'amore che la madre visse, per alcuni anni, con un giovane studente di teologia, Tomas, per poi tornare a riconciliarsi con Henrik, il marito pastore le cui debolezze e schizofrenie possiedono echi strindberghiani assai evidenti.
Anna, la protagonista, è una donna educata all'indipendenza e alla consapevolezza del proprio diritto a un'esistenza felice. I sensi di colpa nei confronti del marito e del giovane amante, tuttavia, la tormentano e la spingono a confessare la propria drammatica situazione ad alcuni personaggi chiave: l'anziano pastore Jacob, il marito, la madre Karin, l'amica Märta. È significativo che Bergman abbia scelto la forma del dialogo per raccontare una storia così intima e carica d'angoscia. In effetti è proprio attraverso la dialettica parola-silenzio che il suo cinema ha saputo scavare nel profondo dell'animo umano, mettendone a nudo le debolezze, le meschinità e le finzioni. Le conversazioni sono ordinate cronologicamente soltanto in parte, ma la progressione non va cercata tanto nello scorrere del tempo quanto piuttosto nella scoperta, lenta e graduale, del personaggio di Anna, che l'autore accompagna con sguardo lucido e a tratti commosso come già aveva fatto nel bellissimo documentario "Karins ansikte" (Il volto di Karin) girato nel 1986 per la televisione svedese. Nella sua autobiografia, "Lanterna magica" (Garzanti, 1987), Bergman ha dedicato alla crisi matrimoniale dei suoi genitori solo poche righe: "Noi non sapevamo che la mamma stava vivendo un amore appassionato e che il papà soffriva di una profonda depressione. La mamma era pronta a rompere il matrimonio, il papà minacciò di togliersi la vita, si riconciliarono e decisero di rimanere insieme 'per amore dei bambini', come si diceva a quel tempo. Noi non ci accorgemmodi nulla, o quasi". È da questo "quasi" che nasce "Conversazioni private".
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