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È un'importante messa a punto della discussione storiografica a cui partecipò Arnaldo Momigliano nel 1981 (in un saggio ora reperibile in Pagine ebraiche , Einaudi, 1987), concernente la cosiddetta "autobiografia" dell'ebreo Hermannus, convertito al cristianesimo ed entrato come monaco nel monastero di Cappenberg, in Westfalia: di un testo, dunque, alquanto enigmatico prodotto nell'ambito della cultura monastica tedesca del secolo XII. La notevole bibliografia su questo scritto (rintracciabile nel sito di giudaistica dell'Università di Trier:http://www.uni-trier.de/uni/fb3/geschichte/cluse/eu/bib_hermannus.html) è ora ripercorsa da Schmitt per riconquistare il senso storico del testo, evitandone lo smarrimento nei labirinti di un biografismo più o meno romanzesco.
Schmitt prende le distanze sia rispetto a un'interpretazione del testo come biografia o autobiografia medievale, un criterio fatto proprio dalla curatrice dell'edizione critica Gerlinde Niemeyer, sia rispetto a una rilettura dell' Opusculum quale esempio di repertorio monastico di stereotipi antigiudaici, irrelato dunque alla reale presenza ebraica nel XII secolo e dunque di nessun significato per ricostruirne la storia (Avrom Saltman, Hermann's Opusculum de conversione sua: Truth or Fiction? , in "Revue des études juives", 1988), ma tuttavia significativo per meglio tratteggiare il clima polemicamente antiebraico che caratterizza il secolo XII monastico.
Né narrazione biografica ebraica, né testo cristiano antigiudaico, dunque. Che cosa, allora? Non tanto una fonte relativa al "confronto fra ebrei e cristiani", quanto piuttosto "un documento di storia" riguardante "la nozione stessa di conversione" e dunque capace di descrivere piuttosto il mondo monastico del secolo XII e le analogie fra ebrei e cristiani nell'area di Colonia e nel monastero di Cappenberg, che non una specifica identità ebraica sia pure cristianizzata. Scrive Schmitt: "Anche se non rimane alcun manoscritto dell' Opusculum direttamente proveniente da Cappenberg, non c'è alcun dubbio che Cappenberg ne è stato il luogo di origine. È là che esso trova ai miei occhi la sua ragion d'essere e la sua finalità. Penso che la sua funzione non fosse in via prioritaria il proselitismo, destinato ad attirare altri ebrei verso la fede cristiana o a convincere ebrei già 'mezzo cristiani'. Questo testo mi sembra piuttosto avere una funzione interna all'abbazia premostratense di Cappenberg. Elaborato dai canonici, o da certuni di questi, era anche, innanzitutto, loro destinato. Il fatto di avere affermato di avere attirato tra di essi un ebreo, senza che fosse esercitata alcuna costrizione su di lui, di averlo assorbito dopo la sua conversione (...) permetteva a questa giovanissima comunità canonicale di proclamare la propria eccellenza spirituale e di assicurare la sua legittimità". Questa logica esegetica - fondata su una concezione del "documento" come oggetto da decifrare seguendo il gioco di significati, linguistici prima di tutto, che gli sono propri - può oggi essere assunta come strategia di analisi largamente condivisa e spesso fruttuosa: tuttavia in questo caso essa induce l'autore ad alcuni equivoci interpretativi, riconducibili a due assunti discutibili.
Il primo di essi consiste nella convinzione storiografica, condivisa da Schmitt, della consequenzialità che esisterebbe fra specificità delle presenze ebraiche europee e indistinguibilità degli stili di vita (e di pensiero) ebraici e cristiani di un'area determinata: se è vero che gli ebrei di Colonia sono profondamente diversi da quelli del Cairo, recita questo sillogismo storiografico, allora è anche vero che gli ebrei di Colonia sono molto simili ai cristiani di Colonia. Che commerciano allo stesso modo, che sognano allo stesso modo, che ragionano allo stesso modo. L'equazione, funzionale alla lettura dell' Opusculum come testo totalmente "interno" al mondo cristiano, convince soltanto fino a che non si prenda in considerazione l'articolazione concreta delle prassi culturali e politico-economiche delle società in questione, sino a che dunque non si assuma come "documento" significativo, accanto alla narrazione di comportamenti, sogni o eventi, l'insieme di testi normativi, regolativi e prescrittivi che, insieme con i primi, formano la rappresentazione complessa di una presenza (cristiana o ebraica che sia). In questa luce l'attacco di Schmitt tanto a Momigliano e Niemeyer quanto a Saltman si rivela debole.
Letture dell' Opusculum in chiave di storia della effettiva presenza ebraica in area tedesca, o in chiave di storia degli stereotipi ebraici prodotti dal mondo cristiano, propongono, sia pure da angolazioni diverse e anche conflittuali, sia pure in presenza di fraintendimenti di alcune informazioni offerte dalla fonte, una decifrazione del testo che lo immerge, credibilmente, nell'universo di tensioni culturali monastiche a suo tempo ben analizzate, per il secolo XII, da Anna Sapir Abulafia e Brigitte Bedos-Rezak. Affermare che un testo ci parla soltanto o prevalentemente del soggetto culturale che lo ha fisicamente prodotto allo scopo di promuoversi, legittimarsi e propagandarsi, negando allo stesso tempo l'implicazione di questo stesso testo nelle dinamiche conflittuali e contraddittorie di un'epoca, sembra meno verosimile che affermare la complessità culturale del suo messaggio, e le molteplici possibilità della sua lettura; soprattutto quando la realtà in questione (il monastero di Cappenberg) abbia tutta la densità intellettuale e politica di una nuova fondazione monastica nella quale si intrecciano gli elementi ideologici, economici, politici e liturgici più caratteristici della fase matura della "riforma" ecclesiastica dei secoli XI-XII: una nuova concezione del rapporto povertà/ricchezza, del nesso possesso/uso/proprietà dei beni, della relazione monastica con i poteri episcopali o pontifici o territoriali laici, dei significati sociali contenuti nel realismo eucaristico, del conflitto, infine, ebraico-cristiano come dato intrinseco alla presenza stessa delle nuove realtà monastiche.
In questo contesto storico, ideologico e sociale risulta poco plausibile che un'opera, scritta e strutturata nella forma di autobiografia di un ebreo convertito, possa contenere, come Schmitt ripetutamente afferma, soltanto riferimenti simbolici al tema misticamente sovrastante della conversio spirituale, mentre nulla all'interno di essa ci parlerebbe realmente dell'intricata problematica sopra citata. Una problematica espressiva, nel suo insieme, della crescita nel secolo XII di nuove progettualità cristiane miranti al rafforzamento di un'egemonia culturale monastica a sua volta rinviante al clima della "riforma" del secolo XI e di per se stessa produttrice di violentissime forme di polemica antigiudaica.
Questa eliminazione degli ebrei dal campo dei significati rilevabili nel "documento", dunque la sottolineatura della sua omogeneità culturale, dell'assenza di contraddizioni o conflittualità nel suo interno, poggia poi su un secondo assunto storiografico ancora largamente diffuso. Esso stabilisce (nonostante molte decisive obiezioni, fra cui spiccano di recente quelle di Michael Toch) l'oggettività storica di quanto la ricerca ha ormai rivelato uno stereotipo culturale: l'identità commerciale (e creditizia) degli ebrei franco-tedeschi fra i secoli XII e XIII. L'adesione non critica a questo modello di rappresentazione (ovvero la disattenzione nei confronti della reale situazione intellettuale, economica e politica costituita dalle comunità ebraiche franco-renane nel XII secolo) determina la convinzione di Schmitt che la contiguità ebraico-cristiana equivalga all'insignificanza storiografica di una lettura del testo in chiave di conflitto ebraico-cristiano. Se gli ebrei si occupavano soprattutto di denaro, come Schmitt presuppone sulla base di fonti palesemente ideologiche e anzi all'origine di decisive catene di stereotipi quali la lettera di Pietro il Venerabile a Luigi VII, appare indubitabile che il sogno o il desiderio di un fanciullo ebreo di "portare anche lui le armi" significhi, come per i suoi coetanei cristiani in svariati tipi di fonte, la volontà di sottrarsi all'angustia di un quotidiano ovviamente affaristico. Se ne ricava che una comune aspirazione alla conversio pervade ugualmente giovani ebrei e cristiani, e si suppone che essa sia tanto più forte in un ambiente che come quello ebraico deve poter rispondere al "rimprovero brutale" di Pietro il Venerabile.
La vicinanza culturale o, meglio, la non differenza fra ebrei e cristiani - e dunque l'assenza del tema ebraico dall' Opusculum - risultano, insomma, desunti dall'inverificato apriori storiografico sulla univocità dei gesti, dei comportamenti e delle intenzioni che omologherebbero l'area culturale ebraica (un soggetto collettivo ovviamente "debole" se interpretato soltanto alla luce di fonti "comportamentali" o di accuse palesemente stereotipate, e dunque privato della propria specificità normativa, autoregolativa, intellettuale) dissolvendola insieme con quella cristiana nel limbo premoderno dell'indifferenziata quotidianità medievale.
Se è ben vero che "concentrarsi sulle strutture narrative per meglio comprenderne in seguito le funzioni costituisce (...) il solo approccio possibile" per chiarire, attraverso un raffronto fra testi, "la specificità di ognuno di essi", non sembra altrettanto vero che il significato storico della presenza ebraica nell' Opusculum , come pure il significato, all'interno di esso, del conflitto fra cultura cristiana ed ebraica, possano essere negati in seguito alla constatazione della pervasività di topoi testuali analoghi riguardanti gli "ebrei" negli scritti monastici del XII secolo, né sarà facile ammettere che la "conversione" (degli infedeli in fedeli, dei castelli in monasteri, di una testa scolpita in reliquiario) in quanto concettualizzazione risultante dalla convergenza di "linee di forza" segnalate dall'"impiego generalizzato degli stessi termini ( conversio , mutatio )" possa risultare in definitiva l'unico oggetto o soggetto reale presente nell' Opusculum di Hermannus quondam iudaeus .
Giacomo Todeschini
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