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Da sempre Ida Travi canta solitudine ed esilio quali avamposti dell'umano, del terrestre sostare tardomoderno fra le rovine dell'Occidente, terra del tramonto. Un canto che, in questo libro, prende l'avvio dai fuochi in festa per il ritorno dell'Agamennone eschileo, un ritorno carico di sventura, come sappiamo, tanto da leggersi emblematicamente come se la nascita della civiltà mediterranea fosse, da subito, attraversata dalla morte, dalla caduta. Il recinto della polis, infatti, pare raccontarci La corsa dei fuochi, è slabbrato sin dall'inizio, e così l'unità, il centro, il senso duraturo. Rimane "la padrona della casa", quella Clitemnestra madre vendicatrice, la cui autorità "supera ogni legge scritta"; rimane la notte senza dei cantata da Hölderlin e Novalis; e rimane la voce-penelope della poetessa, immobile a vedetta sulla terra di nessuno, in quello spazio non più città e non ancora selva, che aduna le anime e le ombre dei paraggi, invitandole all'amorevole corrispondenza: "Come canta, come canta la voce nella sera, la donna in mezzo / al campo, e chiama, chiama". Per chi abbia avuto l'occasione di vedere Ida Travi immobile sul palco, lo sguardo perso in un vuoto temporale, arcaico, mentre dà corpo a una voce neutra, volutamente sospesa tra i due regni, riconoscerà nell'immagine citata certamente il calco. E a essa occorre pensare ascoltando il cd allegato al libro, alcune poesie del quale, musicate da Andrea Mannucci, sono cantate da Patrizia Simone, a volte con eccessiva soavità, tanto che il tragico rischierebbe di sfumare nel sentimentale, se non fosse che il testo è talmente capace di coniugare sogno e trauma (nel medesimo lampo sonoro il Traum della lingua tedesca che porta con sé il volo di Klimt e l'orrore di Schiele) da far fiorire anche nel cantato la fertile oscurità che spetta al vero, quella profonda superficie delle cose in cui l'essere cerca casa. Stefano Guglielmin
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