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Ci vogliono alcune pagine prima che il lettore della Tormenta di Vladimir Sorokin – pubblicato in Russia nel 2010 e da noi per Bompiani nel 2016 sulla scia del premio von Rezzori attribuito allo scrittore russo per La giornata di un opricnik (Atmosphere) – si renda conto che il tempo nel quale si muove Platon Il'ic Garin, il protagonista del romanzo, o più precisamente povest', genere a metà fra racconto e forma lunga, non è quel tardo Ottocento che parrebbero indicare i pince-nez del medico, i suoi stivali di feltro, il telefono a manovella, il mastro di posta a cui il dottore si rivolge, ansioso e irritato, per avere un cambio di cavalli che dovrà portarlo nello sperduto villaggio di Dolgoe dove infuria una letale epidemia.
Laggiù, a Dolgoe, “ci sono ortodossi che muoiono!”, esclama Platon Il'ic, bloccato dalla bufera di neve, la metel' che ha dato il titolo, prima che a questo libro, a una famosa novella di Puskin e che è elemento ricorrente di tanta letteratura classica russa, da Tol'stoj a Cechov, a Blok, i cui versi sono posti in epigrafe al testo. Del resto, ha scritto sul “New York Times” Masha Gessen , “la perigliosa-spedizione-nella-neve può essere considerata l'equivalente russo del road novel americano”, un solco letterario ben tracciato all'interno del quale Sorokin ha scelto di porsi con determinazione e sapienza, se su otto sostantivi usati per descrivere i preparativi del viaggio di Garin, sette “sono fortemente connotati, per chi legga La tormenta in lingua originale, come prosa di uno scrittore russo che con occhi umidi descrive la vita rurale” del suo paese.
Ma ecco comparire una misteriosa “propulsoslitta” la cui forza motrice è rappresentata da cinquanta minuscoli e bizzosi cavallini, e con la propulsoslitta, a mano a mano che il racconto procede, una serie di elementi che ci rivelano come la sventurata avventura di Platon Il'ic si situi in un futuro distante da noi qualche manciata d'anni, più o meno lo stesso tempo – anche se l'ambientazione è diversa – che fa da sfondo alla Giornata di un opricnik e poi alla raccolta di racconti fra loro, e ad esso, concatenati, Cremlino di zucchero, precedente in realtà alla Tormenta, essendo uscita in Russia nel 2008 e qui di recente da Atmosphere: un futuro che ha più di magico che di avveniristico, nonostante gli ologrammi e i prodotti, droghe potentissime, la cui azione il dottor Garin ha modo di sperimentare mentre procede, insieme al vetturino Raspino, verso la non lontana e irraggiungibile Dolgoe.
Un “retrofuturo”, in effetti, lo ha definito il critico Mark Lipoveckij (ce lo ricorda opportunamente Valentina Parisi), all'interno del quale non esiste soluzione di continuità, anche linguistica, fra l'ipotetico mondo che sarà, quello che è stato, quello che è, e infine con il mondo fantastico delle fiabe tradizionali, la cui persistenza nell'immaginario contemporaneo russo è ancora molto forte, ben più di quanto accada in Italia. (E difatti l'appassionata ed eroica traduttrice dei tre testi, Denise Silvestri, ha notato come “la maggiore difficoltà” sia stata per lei “rendere questa oscillazione tra passato, presente e futuro, un continuo salto che si creava con l’uso di neologismi che io dovevo riproporre con la stessa magica forza in italiano”).
Nelle sue peripezie Platon Il'ic pare impermeabile allo stupore, come al cambiamento: non si sorprende quando approda a casa di un mugnaio, un omino collerico non più grande “dello scintillante samovar nuovo”, che si ubriaca bevendo vodka casalinga da un ditale d'acciaio e la cui grande e torpida moglie nottetempo si infila nel letto del medico; né quando si imbatte nel cadavere di un gigante, dentro la cui narice si incaglia un pattino della propulsoslitta guidata dal semplice e buon Raspino; e neppure – sotto l'effetto del prodotto – mentre sogna di essere immerso in un pentolone pieno d'olio bollente.
Soffocate in un paesaggio eternamente bianco di neve, le varie tappe di questo viaggio – alla lettera – infinito, non portano da nessuna parte, sono altrettanti “incantamenti” di un meccanismo inceppato, che non sarà certo il povero dottor Garin, intriso di benintenzionata presunzione, a sbloccare. “Scrivo sempre della metafisica russa”, pare abbia dichiarato una volta Sorokin e il critico Aleksandr Genis, che riporta la frase , gli dà ragione, essendo la metafisica quel campo della conoscenza che “studia la realtà di sempre, fondamentale, immobile, ciò che è invisibile a un occhio non addestrato al dolore”.
Sarebbe allora riduttivo vedere nei libri dello scrittore soltanto una analisi spietata (e narrativamente ricchissima di invenzioni e suggestioni) della Russia d'oggi. Certo, forte è la tentazione di leggere Cremlino di zucchero, dove l'elemento di raccordo fra i vari racconti è il bianco dolce (in realtà inesistente) che gli dà il nome, agognata emanazione del potere autocratico, come un ideale seguito al secondo romanzo dello scrittore, Norma, scritto in epoca sovietica tra il 1979 e il 1983, mai tradotto in italiano e caratterizzato da una struttura simile, con la differenza che in quel caso la sostanza da ingerire ogni giorno, la “norma” appunto, era merda umana.
Dall'assunzione forzata degli escrementi all'accoglienza entusiastica di uno “stupefacente”, mentre alle frontiere si costruiscono muri per separare il paese da invasioni esterne: una parabola russa. Soltanto russa?
Recensione di Maria Teresa Carbone.
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