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Fabbrica di l libro (rubrica) Sergi, G., L'Indice 1996, n.11
Forse chi scrive la storia di un secolo vivendoci dentro compie una sorta di autocoscienza di quel secolo; forse chi si occupa dei modi del fare storia si interroga sulle regole dell'autocoscienza: per questo un affondo più specifico nel saggio di Mario Isnenghi, "Storia e storiografia" (pp. 687-724) consente una valutazione poco condizionata dai confini degli specialismi.
I due temi, storia e storiografia, sono volutamente intrecciati nelle pagine di Isnenghi, perché a ben guardare ne è protagonista la storiografia sulla contemporaneità: quindi il Novecento che riflette su se stesso. Nei dibattiti che non trapelano nell'insieme del volume si riconosce, spesso, che la contemporaneistica è la parte più immatura della ricerca storica e che quella italiana dà le risposte più nuove - in linea con gli studi sulle età precedenti - quando riceve prestiti metodologici da antropologia e sociologia. Qui si insiste sul fatto che gli studiosi che avevano l'attrezzatura idonea (definita "filologica" per indicarne il rigore tecnico) hanno avuto, per tutto il secolo, tendenza a rifuggire dai tempi a loro più vicini. Le due eccezioni, Gaetano Salvemini e Gioacchino Volpe, risultano emblematiche: entrambi medievisti di formazione, uscito uno a sinistra e l'altro a destra dalla cosiddetta scuola economico-giuridica, applicarono ai loro anni riflessioni e azione politica. Ma se è vero che le loro vite appaiono ripartite fra diverse attività, non è vero che in loro lo studioso professionale è stato del tutto sostituito dall'intellettuale militante, e non è vero che le "buone norme" del fare storia passata fossero soltanto "accademiche". Un esempio. Isnenghi conia l'efficace formula dei "dinamizzatori politici" per definire i nazionalisti di primo Novecento così come li considerava Volpe: ebbene, Volpe aveva imparato che cos'era un dinamizzatore politico studiando gli eretici e i gruppi sociali più irrequieti del comune medievale.
Ha ragione Isnenghi quando afferma che si è fatta poca storia a un tempo professionale e civile nel corso del secolo XX: così per capirne lo spirito bisogna ricorrere a surrogati eccezionali (da Pirandello a Calvino) o quotidiani (la memorialistica). Ma aggiungiamo che la storiografia italiana del secolo XX - come altri campi della cultura - si è sprovincializzata: ha rivendicato la libertà della memoria (secondo i suggerimenti di Huizinga), ha sostenuto non solo la pari dignità ma anche l'utilità sociale - come oggetto di studio - di qualunque argomento del passato (nel solco di Bloch e delle "Annales"). Esiste una storiografia italiana del Novecento maturo che non ha alle spalle n‚ Labriola n‚ Croce, ed è questa che ha cominciato a dialogare con il mondo. Nei rapporti fra Otto e Novecento si possono cercare le continuità (e, a giudicare da questo volume, è stato molto più creativo il primo secolo del secondo) ma si possono anche cercare rotture, talora molto produttive.
A meno che non si voglia negare alla storia lo statuto di disciplina specifica: a meno che non si abbia nostalgia degli storici "obbligati" all'intervento politico, dimenticando che la cessazione di quell'obbligo è stata più volte salutata come un progresso irreversibile (da Girolamo Arnaldi, ad esempio). Se ne è già discusso in passato, nell'"Indice", a proposito dell'identità dell'Italia-nazione, e si è già detto che non è compito degli storici costruirla (perché il loro compito, ha insistito Le Goff, è intervenire sul presente interpretando il passato, non costruendolo n‚ ri-costruendolo). Isnenghi rileva che la Resistenza ha prodotto "i custodi della propria memoria" più celermente di quanto non avesse fatto il Risorgimento: e con ciò segnala una differenza importante fra la prima e la seconda metà del secolo. Una differenza in questo caso non positiva, secondo me: del resto Isnenghi stesso sembra mostrare perplessità sul generalizzarsi del modello della storia di genere applicato a tutto (storia militare scritta da militari, storia partigiana scritta da partigiani). Viene fuori che il dibattito storiografico italiano suona spesso "vecchio". Forse perché trascura che, a livello internazionale, gli ultimi decenni della nostra storiografia sono ben giudicati anche per la capacità di riprendere punti francesi, tedeschi e inglesi e di comporli in modo non solo sincretistico ma anche originale; la cultura italiana del Novecento non è unicamente quella che ha matrici ottocentesche e già italiane.
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