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Anno edizione: 2011
Anno edizione: 2014
Un affascinante caleidoscopio di luoghi vissuti, personaggi incontrati, libri letti, una saga familiare le cui vicende biografiche coincidono con un filone significativo della vita politica, militare e culturale del secolo breve. Da casa Pintor non è solo una raccolta di lettere, ma un affresco in cui la prospettiva scelta è mettersi "dalla parte della madre", come dichiara la curatrice nella premessa, "per ricostruire la storia della famiglia Pintor da un punto di vista laterale e femminile", seguendo il nesso sottile tra singole personalità, tragedie storiche e rito degli affetti domestici.
Affabulatrice d'eccezione è la voce epistolare di Adelaide Dore, Dedè, raffinata scrittrice e traduttrice per l'infanzia nel tempo lasciato libero "fra una cottura di farina lattea e uno scacciamento di mosche", insegnante per vocazione, donna anticonvenzionale dallo spirito arguto, il cui volto intellettuale è stato fino a oggi solo abbozzato nel racconto della vita dei due figli più celebri, Giaime e Luigi.
Ad apertura di volume un saggio di Monica Pacini ripercorre con stile elegante episodi in parte già noti di casa Pintor, qui arricchiti di particolari grazie all'uso sapiente di documenti di varia natura, tra cui la narrazione autobiografica inedita, Bambini di ieri, relativa agli anni dell'infanzia di Dedè. L'analisi prende le mosse dalla nascita a Firenze di Adelaide (1890) e prosegue saldandosi, dopo il matrimonio con Giuseppe, il più giovane dei cinque fratelli Pintor, con la storia di questa famiglia della "piccola nobiltà sarda", in cui l'orgoglio dell'appartenenza di classe sarà sempre affidato all'esercizio di austeri costumi.
A seguire, nel volume, una scelta di lettere, la maggior parte delle quali inedite, tra le centinaia scritte con ariosa calligrafia da Adelaide ai parenti lontani per informarli della crescita e della formazione dei figli (Giaime, Silvia, Luigi e Antonietta), e poi, dal 1935, a Giaime approdato a Roma in casa degli zii per proseguire gli studi liceali. A integrare questo corpus, le lettere a Gina Lombroso Ferrero e quelle inviate, ormai settantenne, al nipote Carlo Ferrucci.
Il tempo epistolare prende i toni di un diario familiare, passibile di molteplici letture. Da quelle più strettamente autobiografiche, che ripercorrono tempi e modi già individuati nel saggio di Pacini, a questioni di rilievo storiografico, come l'accesso delle donne alla politica, la riforma scolastica ("Non si risolvono problemi scolastici con articoli generici"), l'utilizzo delle nuove forme di comunicazione ridotte dal regime a "gran frastuono di altoparlanti" o il "chiasso per questa eterna storia studentesca" del 1968.
Ma è l'aspetto privato che colpisce: l'autorevolezza della voce di questa donna minuta che riesce a mettere tutto e tutti sullo stesso piano (la visita del vicesegretario del Pnf Marpicati e le ferite riportate da Antonietta "sdrucciolando col monopattino su una buccia"), la penetrante ironia con cui prende le distanze dai veleni della cultura fascista, il tagliente giudizio critico che ritroveremo nei figli, la capacità, in un'epoca di clamori urlati e di vuota retorica, di affidarsi a una parola scritta che definisce e racconta.
Le lettere scorrono veloci, tessendo una trama che annoda gioie e dolori, tra l'esigenza esistenziale "di riprendere la penna" ("Ho bisogno di parlare, o almeno di scrivere, come altri di fumare"), di non sacrificare le proprie aspirazioni sull'altare della triade "Dio, Patria, Famiglia", e l'impegno materno di "formare l'anima di queste creature". Poi l'esilio nella "sperduta isola dei sardi", dove il "penoso senso di isolamento" presto diventa "grigia solitudine". Eppure la voce epistolare di Dedè, nel suo naturale ottimismo, non appare mai ripiegata su se stessa ("È un gran beneficio quello di vedere la vita come una lunga strada aperta").
Cresce quindi il sodalizio intellettuale con Giaime ("Tu che l'isola hai voluto lasciarla") a cui, appena sedicenne, la madre non risparmia di confidare il "feroce rimpianto di anni che avrebbero potuto trascorrere in modo più rispondente ai miei gusti"; un'inquietudine, questa, che il giovane assorbirà come una deontologia personale fino al sacrificio finale: "Sarebbe strano e deprecabile che riuscissi a vivere tutto questo periodo di storia seduto su una stufa come Cartesio" (Giaime Pintor, Doppio diario, Einaudi, 1979). Infine lo squarcio, la morte di Giaime, che Dedè denuncia come "un tradimento che toglie ogni senso alla vita". E, nel suo accostare "al Giaime di cui parlano i giornali quel Giaime piccino che nessuno di quanti lo conobbero ha mai scordato", offre, sin dal 1944, una nuova chiave di lettura capace di sottrarre la complessa figura del figlio alla duplice insidia della retorica celebrativa o delle polemiche strumentali.
Poi il silenzio, "A voce, di Giaime non parlo mai", e il coraggioso tentativo di ricomporre una serenità familiare sulle rive dell'Italia repubblicana.
Maria Cecilia Calabri
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