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Cinque brevi racconti della scrittrice "iraniana, russa, ebrea, ungherese", naturalizzata francese,Yasmina Reza, nota a livello internazionale soprattutto per la sua produzione teatrale: scritti con levità e sospesa malinconia, quasi con pudore e timore di approfondire sentimenti e situazioni, evitando descrizioni accurate di luoghi e figure. Non si tratta nemmeno di ricordi: immagini,piuttosto, sensazioni che hanno qualcosa di impressionistico. Acquerelli dai colori tenui. "I luoghi mi ispirano quando li vedo da una strada o da un treno per esempio".Mai da molto vicino, piuttosto dall'alto,o di lato. Come quando racconta il rito del saluto ai suoi bambini che vanno a scuola, il timore di seguirli troppo con gli occhi, o troppo poco. La paura di penetrare con eccessiva partecipazione nelle vicende altrui, nelle anime degli altri: che così vengono colti in un solo gesto (il tuffo in piscina,un maglione nero con le frange,il cocker nero inquietante dei genitori,la camera troppo ordinata dell'adolescenza..) E tutto viene come mediato,filtrato,attraverso lo spettro impersonale della letteratura; i sentimenti rivivono soprattutto nelle parole degli scrittori più amati. Questa quasi estraneità alla vita reale ("occorre astrarsene o considerarla l'unica salvezza,con la sua banalità, le sue inerzie i suoi continui ricominciamenti?") viene motivata nel racconto finale,che dà il titolo al libro. L'autrice non ha origini,è una déraciné: "Io non ho radici, a nessun luogo è mai importato di me...Non conosco le lingue, nessuna lingua, dei miei padre, madre, antenati, non riconosco né terra né albero, nessun suolo è stato il mio.. non so di quale linfa mi sono nutrita.." Troppi luoghi e troppe lingue l'hanno resa lontana ed esclusa, incapace di riconoscersi in ricordi e tradizioni, incapace di rimpianti. E così la sua scrittura elegante e leggera dà al lettore l'impressione di uno smarrimento soffocato a lungo, di un disagio mai vinto, di una tristezza quasi rassegnata.
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