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1986
277 p.
9788815011398

Voce della critica


recensione di Falco, G., L'Indice 1988, n. 2

Il "Taccuino" di Ettore Conti è praticamente l'unico esempio tra le poche memorie scritte da imprenditori italiani di grande spicco nella prima metà del '900 che abbia avuto l'onore ed il successo di tre edizioni in quarant'anni. Apparve la prima volta presso Garzanti nel 1946, nella collana "Vita vissuta", senza distinguersi troppo dai tanti libri che volevano giustificare passate collusioni con il fascismo in nome del patriottismo o rivelare dissensi coltivati per anni in rigoroso silenzio. Nel 1971, un anno prima della morte dell'ormai ultracentenario autore, uscì, sempre presso Garzanti, una nuova edizione, suggerita forse dalla fortuna del testo fra gli storici. Nessuno degli archivi economici necessari per lo studio della storia italiana nella prima metà del '900 era allora disponibile, se si escludono i versamenti fatti da privati o amministrazioni statali all'Archivio centrale dello stato. Ora, in una situazione per molti versi migliore per quanto attiene alle fonti del lavoro storico, giunge una nuova edizione identica alla prima nel testo, malgrado il numero di pagine assai inferiore consentito dai caratteri più piccoli e dalla contrazione dei margini. Essa però è priva delle fotografie fuori testo presentate nel 1946 per documentare le iniziative architettoniche patrocinate da Conti, parente di Piero Portaluppi, uno degli architetti più prestigiosi della Milano tra le due guerre.
Un'introduzione di Piero Bairati giustifica il recupero del "Taccuino", sottolineandone i pregi dal punto di vista della ricostruzione della moralità e della cultura imprenditoriale italiana, attraverso l'esperienza di vita di uno degli esponenti di maggior prestigio dell'industria elettrica del nostro secolo. Si tratta di una proposta di lettura impegnativa e ardua da realizzare per le caratteristiche della fonte che richiederebbe un'attenta decodificazione. Il "Taccuino" si presenta infatti come un diario, benché Ettore Conti lo abbia scritto interamente durante la seconda guerra mondiale, quando la frattura tra regime fascista e padronato era ormai irreversibile e la sua preoccupazione fondamentale era di impedire che il crollo imminente del fascismo e la sconfitta travolgessero lui personalmente e il potere sociale e politico della sua classe. La biografia di Conti scritta per il "Dizionario biografico degli italiani" da Enrico Decleva, ci informa che Giovanni Malagodi suggerì all'industriale di modificare un progetto concepito nell'estate 1939 (rievocare le fasi iniziali dello sviluppo industriale italiano) in un racconto autobiografico che lo impegn• durante tutta la guerra, e a cui forse recò un contributo di linguaggio e stile il figlio adottivo, lo scrittore Piero Gadda Conti.
Nel "Taccuino" confluirono relazioni svolte alle assemblee di azionisti di società in cui operò Conti, suoi articoli di argomento industriale e sunti dei discorsi pronunciati in Senato o alla Camera di commercio internazionale (in cui egli fu presidente della sezione italiana), nonché le memorie presentate al governo a conclusione degli incarichi ricevuti. Il materiale di base fu organizzato cronologicamente per far credere che si trattasse di una testimonianza immediata e spontanea, resa seguendo il corso degli avvenimenti e perciò degna di fede. Ma molti dettagli rivelano che il testo ubbidisce ad un'accorta regia che guida la scelta dei ricordi e il loro commento. Colpisce, per esempio, che l'allontanamento di Conti, nel l926, dalla carica di amministratore delegato della società che aveva fondato e che da lui prendeva il nome, perché assorbita dalla Edison, sia collocato esattamente a metà del libro per sottolineare che l'episodio fu uno spartiacque nell'esistenza dell'autore. Anche la scelta di collocare alla vigilia della prima guerra mondiale una sorta di bilancio dei venticinque anni trascorsi dal decollo industriale italiano tradisce la consapevolezza di vicende successive, così come i dubbi espressi nel 1938 sulla difficoltà di accordare gli interessi di Italia e Germania sembrano scaturire dall'esperienza dei complessi rapporti fra gli alleati nella seconda guerra mondiale.
Nel presunto diario hanno ampio spazio le giustificazioni della passata collaborazione con il fascismo e molti episodi devono sottolineare l'indipendenza di giudizio dell'industriale nel ventennio, ricalcando argomentazioni consuete nella memorialistica degli anni '40 e '50. Vengono ascritti a merito del fascismo la restaurazione della disciplina nei rapporti di lavoro nel primo dopoguerra, l'aumento della produttività che ne derivò e una politica finanziaria conforme ai desideri delle organizzazioni industriali nei primi anni venti, giustificando così l'appoggio prestato a Mussolini nel 1922 per formare il suo governo.
Si critica invece la politica finanziaria degli anni '30, giudicata pericolosa e statalista, e si sottolinea l'incapacità boriosa e la corruzione dei gerarchi, disprezzati come 'parvenus' che comandano senza legittimazione. Conti non omette di ricordare il suo voto contrario in Senato ai pieni poteri concessi al governo nel gennaio 1925, sottolinea che nel 1930, quando divenne presidente della Banca Commerciale, non era iscritto al PNF e che nel 1929 Edda Mussolini fu costretta dal padre a non frequentare i Conti perché "non amici". L'ultima missione ufficiale (che valse all'industriale la nomina a ministro plenipotenziario), le trattative con il Giappone e il Manciukuò nel 1938 per accordi economici, viene giustificata come un dovere patriottico, avvertendo che l'appannaggio relativo fu rifiutato. Naturalmente viene condannato l'antisemitismo del regime e si ricorda qualche benemerenza verso antifascisti: l'intervento a favore dell'ex-ministro liberale Bortolo Belotti, spedito al confino nel 1931 e la nomina del senatore Giolittiano Frassati alla presidenza dell'Italgas nel 1932 per alleviare il dolore causatogli dalla morte del figlio. Non sono certamente casuali, infine, le espressioni di stima per Vittorio Emanuele III e per Vittorio Emanuele Orlando, segnale delle persistenti simpatie conservatrici di Conti.
L'adattamento del materiale non riguarda solo i rapporti con il fascismo, ma deforma anche episodi di un tempo che non richiedeva la giustificazione di scelte politiche diventate imbarazzanti. Conti, per esempio, dichiara spesso di non amare la politica, ripetendo uno stereotipo diffuso fra gli imprenditori lombardi che sottintende una politica contro i politici di professione, accusati di non tener conto delle esigenze della produzione. In realtà egli avvertì molto presto l'importanza decisiva che il rapporto con l'amministrazione pubblica aveva per il successo delle sue iniziative e già nel 1902 riuscì eletto fra i conservatori nel consiglio comunale di Milano. Negli anni seguenti profuse tempo ed energie per contribuire alla nascita di organizzazioni rappresentative di categoria che tutelassero gli interessi industriali nei confronti dello stato e contrastassero le rivendicazioni dei lavoratori con maggiore efficacia. Il successo incontrato in questo campo e l'influenza acquisita con le sue fortune di imprenditore furono alla base di una carriera politica che diede grandi responsabilità e autorità a Conti nel definire la strategia di vastissimi interessi economici.
Esponente di prestigio dell'industria elettrica lombarda già nei primi anni del '900, durante la grande guerra fu una delle figure chiave che meglio illustrano l'organico inserimento di imprenditori e tecnici legati alle imprese nell'amministrazione statale; inserimento favorito da Nitti e concepito dalle organizzazioni imprenditoriali per influire con maggiore efficacia sull'elaborazione e la realizzazione della politica economica nazionale. Conti entrò a far parte nel 1917 della Commissione tecnico-amministrativa per le industrie di guerra, e fu nominato consigliere di amministrazione della Banca Commerciale nel 1918. Dopo l'armistizio - divenuto nel frattempo anche senatore - come presidente della giunta esecutiva del comitato interministeriale per la sistemazione delle industrie di guerra, favorì una conversione meno traumatica dell'industria alle condizioni della pace. Concluso questo compito, dopo aver presieduto una missione governativa nel Caucaso per valutare le possibilità di penetrazione economica in una regione che creava molte aspettative negli industriali italiani per l'abbondanza di materie prime e l'assoluta mancanza di manufatti, fu eletto presidente della Confindustria nel 1920.
Insieme con Gino Olivetti (di cui sorprendentemente Conti tace) offrì a Giolitti il modo per risolvere con vantaggio delle industrie e del governo l'occupazione delle fabbriche nel settembre 1920: pur faticando molto per convincere gli industriali metalmeccanici ad accettare la proposta riuscì a impegnare i sindacati in un programma difficilmente concretabile di partecipazione alla gestione delle imprese. Conti fu ancora, come presidente dell'Assonime, una delle personalità più influenti nel complesso gioco che portò alla formazione del primo governo Mussolini contrattando con lui la realizzazione di una politica economica ben accetta alle organizzazioni industriali. Senza ripensamenti o difficoltà egli collaborò con il fascismo negli anni seguenti pur mantenendo indipendenza di giudizio su ogni questione che direttamente toccasse gli interessi dell'industria e della finanza di cui si considerava rappresentante. Esemplare a questo proposito fu il suo discorso del maggio 1927 in Senato sulla rivalutazione della lira. Esso fu una tessera della vasta manovra con cui nella tarda primavera del 1927 si cercava da più parti di indurre Mussolini a non rivalutare ad oltranza la lira, usando come argomentazione efficace il pericolo di compromettere irreparabilmente il pareggio del bilancio di cui il fascismo si vantava. Conti contribuì, dunque efficacemente alla decisione di lasciar svalutare la lira del 10% circa, facendole raggiungere il livello che sarebbe stato ufficialmente confermato, con un modesto riaggiustamento, nel dicembre 1927.
Come altri illustri imprenditori italiani in quegli anni, Conti vide nel fascismo il mezzo per rafforzare l'influenza degli interessi imprenditoriali nella società italiana. Solo quando le scelte compiute dal regime rischiarono di pregiudicarli gravemente, Conti si risolse al distacco dal fascismo. Il "Taccuino" costituisce in larga misura l'estremo servigio reso a quegli stessi interessi per separarne il destino da una dittatura ormai condannata e legittimare il ruolo di comando del padronato nel dopoguerra in nome dell'interesse nazionale e della produzione. Appellandosi alla solidarietà nazionale, Conti ricorda passate concessioni alle rivendicazioni operaie (il diritto di sciopero) e provvidenze paternalistiche (la scuola per tecnici "Ettore Conti", per esempio) esalta i valori del cattolicesimo (onorati con il restauro prestigioso di S. Maria delle Grazie di Bramante) e addita l'ardore per il lavoro e la disciplina, di cui, dice, gli industriali sono i primi depositari, per affrontare il compito immane della ricostruzione senza disperare.

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