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recensione di Buttino, M., L'Indice 1996, n. 1
L'opera di Boffa più letta è la "Storia dell'Unione Sovietica" in due volumi, il secondo dei quali (uscito alla fine degli anni sessanta) si conclude con la destituzione di Chruscëv. La storia prosegue e Boffa ora riprende la narrazione, descrivendo i tratti essenziali del regime negli anni di Breznev, per poi arrivare nel vivo della questione: le vicende della perestrojka fino allo scioglimento dell'Urss. L'impostazione è quella che Boffa aveva adottato in passato: la sua Unione Sovietica è un paese che si trasforma governato da un partito, che a sua volta è diretto da un segretario autorevole, ma talvolta vittima di complotti di palazzo. I membri dell'élite politica vengono perciò studiati nelle loro enunciazioni e nei loro contrasti, e parrebbero avere il paese nelle loro mani se non esistesse anche un opaco lavorio dei burocrati, l'irrazionalità della gente comune e una costante insidia capitalistica di marca americana. Boffa nel trattare della crisi dell'Urss guarda soprattutto a Gorbacëv, ritenendolo un riformista coraggioso e saggio, ma costretto all'insuccesso.
Prima di seguire le argomentazioni di Boffa, sappiamo che il percorso attraverso cui dovrà guidarci non permette molte alternative. Possiamo infatti intravedere una via per spiegare il fallimento di Gorbacëv ipotizzando che le sue decisioni non fossero coerenti e per questa ragione non diedero i risultati voluti; oppure possiamo pensare che le decisioni di questo segretario benintenzionato esprimessero una volontà debole e non fossero in grado di imporsi, ossia di essere indirizzi di un'effettiva azione di governo. Le due ipotesi ovviamente non si contraddicono: Gorbacëv in effetti fu incoerente (anche se Boffa lo vuole eroe armato di una ragione illuministica) e debole.
Quando Gorbacëv divenne segretario, i vertici del partito comunista erano convinti della necessità di intervenire con urgenza per arrestare lo sfascio istituzionale, la corruzione diffusa, la crisi economica ereditati da un decennio di inerzia e di non-governo. Non esisteva un piano di riforma, ma soltanto alcuni indirizzi generali: il nuovo segretario voleva più democrazia e più mercato. Vennero le prime decisioni. Da una parte fu concessa la fine della censura, la libertà di opinione, la possibilità di creare organizzazioni sociali autonome (ma non partiti); dall'altra, vi fu la prima legge sull'impresa economica e sulle cooperative (ancora non si parlava di proprietà privata).
Boffa analizza soltanto in superficie il percorso della "riforma" economica dai primi pavidi passi alla ricerca dell'autogestione (il modello jugoslavo!) e di un mercato che nei fatti era impraticabile, e non esamina il corso di un'economia lasciata allo sbaraglio. Il paese andava a catafascio mentre conservatori, riformisti cauti e riformisti radicali discutevano aspramente. I progetti radicali probabilmente erano inattuabili, come afferma Boffa, ma quelli moderati erano deboli tentativi di conservazione dei cocci di un sistema in rovina. Il problema era che lo stato forte e riformatore, che avrebbe voluto Boffa, non esisteva e non si sapeva da che parte iniziare per costruirlo.
Boffa spiega la situazione anche ricorrendo a Machiavelli, cita una pagina in cui si legge che chi vuole "farsi capo ed introdurre nuovi ordini" incontra per "nemici tutti quelli che delli ordini vecchi fanno bene" e scopre che "è facile persuadere [i populi] una cosa, ma è difficile fermarli in quella persuasione", ecc. Il segretario diventa Principe, ma la forza che gli permette di "non dipendere da altri" e di essere profeta "armato" (come dice Machiavelli) sta nel Pcus (come dice Boffa).
L'azione lungimirante del riformatore, intravista da Boffa, si nascondeva in realtà nel comportamento di un segretario che pare usasse spesso le parole di un suo grande collega del passato, "on s'engage en puis on voit". In effetti, il merito di Gorbacëv fu quello di correggere continuamente il tiro, avendo capito che ogni decisione si fondava su informazioni incerte e che ogni iniziativa aveva un percorso tortuoso o bloccato (questa è una delle questioni fondamentali su cui si sarebbe dovuto indagare). Il segretario agiva infatti all'interno del sistema di comando ormai non più funzionante, costituito dal partito comunista e voleva servirsene per rompere il monopolio del potere e la dittatura di questo partito.
Si arrivò al febbraio 1990, all'abrogazione dell'articolo 6 della Costituzione, che stabiliva la funzione dirigente del partito. Ormai esistevano altri partiti e si tenevano elezioni quasi democratiche. Boffa, più realista del Principe, sottolinea che la trasformazione del ruolo del Pcus creò problemi alla direzione di tutti gli altri corpi dello stato e in particolare dell'esercito. Gorbacëv nel marzo dello stesso 1990 fu nominato presidente dell'Urss, poi si aprì nel parlamento la discussione sulla compatibilità tra la carica di presidente e quella di segretario del Pcus. Boffa sottolinea il fatto che contrari all'unione delle due cariche erano, da una parte, l'ala conservatrice dei comunisti e, dall'altra, i "democratici" più radicali (le virgolette sono sue).
Poi venne la congiura dell'agosto 1991: non fu mai provata la complicità di Gorbacëv; certo il colpo di stato maturò nel suo partito, tra coloro che consideravano il patto federale tra le repubbliche, voluto dal segretario, un attentato all'Unione, alla Russia, al partito e all'esercito. Infine "suo malgrado e nonostante una tenace resistenza, Gorbacëv fu costretto anche a sciogliere il Pcus". L'Urss si divise in repubbliche sovrane e ovviamente scomparve anche il parlamento sovietico. Boffa ci spiega: "Con la distruzione del Pcus e lo scioglimento del Parlamento federale, venivano meno i tessuti connettivi ideologici, giuridici ed organizzativi che avevano fino in quel momento tenuto insieme il paese. La storia del parlamentarismo russo conosceva un'altra pagina infausta. Non sarebbe stata l'ultima".
Non vi fu un tentativo coerente di rifondazione dell'Urss su basi democratiche (ve ne furono molti, mutevoli e contraddittori). Boffa, che ritiene che questo tentativo sia esistito, trova i colpevoli di averlo fatto fallire. Colpevoli furono gli estremisti (credo per definizione). Cominciarono la loro azione negli anni di Breznev, erano le correnti del dissenso che avevano posizioni nazionaliste russe (Solzenicyn) e quelle che guardavano troppo verso l'occidente. Tra i secondi Boffa indica la componente ebraica del dissenso che trova alleati in America per imporre all'Urss la concessione di visti di emigrazione: pareva una lotta in difesa di diritti fondamentali, ma Boffa la considera come attentato alla distensione. Poi l'estremismo divenne un fenomeno dilagante durante la perestrojka, quando gli americani addestrarono e sostennero gli economisti con i progetti più radicali, quando gli operai delle miniere iniziarono irresponsabilmente a scioperare badando soltanto al loro misero ed evanescente salario e quando i nazionalisti iniziarono a riempire le piazze.
La colpa dello sfascio, secondo Boffa, è principalmente attribuibile al nazionalismo russo, di cui El'cyn si fece sostenitore quando volle la sovranità della Russia e poi la fine dell'Urss. Avremmo potuto pensare che la paralisi dell'economia avesse spinto le regioni e le repubbliche a diventare gelose delle proprie risorse, che la perestrojka fosse una politica che usciva soltanto di pochi passi dalle stanze del potere centrale, che non potessero più valere leggi uguali per tutta l'Urss quando il paese era diventato ormai profondamente diverso al proprio interno, che l'indebolimento del governo centrale avesse favorito un decentramento involontario del potere, e che infine le élites politiche repubblicane si fossero candidate al potere cercando consenso attraverso una retorica nazionalista. Boffa spiega che causa ed effetto vanno lette in senso contrario: tutta la colpa è dei nazionalisti, che provocarono le divisioni, sabotarono lo stato, distrussero l'economia...
Lasciamo ora perdere colpe e rimpianti, e pensiamo al futuro. Boffa considera finita l'ondata del nazionalismo più acceso e constata che le repubbliche sovrane ora tentano di avere rapporti di collaborazione politica e di stringere nuovamente relazioni economiche. In effetti questa è una delle tendenze attuali, anche se le insidie sono ancora molte. El'cyn certo è tutt'altro che democratico, ma non ha sbagliato (mi scusi Boffa) quando ha capito che la fine del Pcus e la sovranità nazionale erano i passi inevitabili per scongiurare un tracollo comune di dimensioni ben più gravi, e per cercare poi un nuovo equilibrio e forse anche una nuova forma di dominio russo.
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