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Decimo rapporto sulla condizione occupazionale dei laureati. Formazione universitaria ed esigenze del mercato del lavoro - copertina
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Descrizione


Con questo X Rapporto sulla condizione occupazionale dei laureati AlmaLaurea mette a punto un'ampia e attualissima documentazione sul destino professionale dei giovani. La popolazione qui presa in esame -92mila laureati di 45 università italiane che hanno conseguito il titolo nelle sessioni estive degli anni 2006, 2004 e 2002 - si articola nelle due componenti pre e post-riforma, aumentando inevitabilmente la complessità di interpretazione delle analisi compiute. Dalle quali si evince che rispetto al 2007 vi sono lievi segnali di ripresa, ma solo limitatamente al primo ingresso nel mercato del lavoro; e si tratta, tra l'altro, di segnali non univoci, poiché l'indagine, collocata tra l'estate-autunno del 2006 e l'autunno 2007, rispecchia la situazione vissuta in questo arco di tempo, caratterizzato inizialmente da forti segnali di ripresa economica, e successivamente - a fine 2007 - da una evidente frenata. Inoltre l'iniziale crescita del numero di laureati, ancora insufficiente per recuperare il ritardo a livello europeo, sembra già bloccata. Tra gli altri temi presi in esame: i laureati nei settori dell'industria e dei servizi; nel settore privato e pubblico; la questione del lavoro autonomo; i laureati all'estero: fuga o investimento?
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Dettagli

2008
254 p., Brossura
9788815126450

Voce della critica

Sono passati solo quarant'anni, eppure sembra un'altra epoca storica: quando chi si iscriveva a una scuola professionale sapeva che non avrebbe mai potuto frequentare l'università; quando al diploma arrivava solo una minoranza di studenti eletti; e quando solo gli eletti tra questi eletti puntavano alla laurea. A quei tempi, l'università poteva ancora autorappresentarsi come un'istituzione di élite. Poi venne il Sessantotto e l'anno dopo arrivò una riforma che permetteva a chiunque fosse diplomato di proseguire all'università; il numero di diplomati crebbe ed esplosero le iscrizioni al livello successivo.
Queste trasformazioni erano sotto gli occhi di tutti, eppure gran parte della classe politica (e del corpo accademico) ha fatto finta di non vederle per decenni. Con tutte le disfunzioni che seguirono: aule universitarie sovraffollate, personale insufficiente, la maggioranza degli iscritti che abbandonava gli studi dopo qualche anno, mentre quei pochi che li portavano a termine impiegavano in media sette anni.
Invocata per almeno trent'anni, nel 1999 è arrivata finalmente la riforma dell'università: addio alle vecchie lauree quadriennali, sostituite dalle lauree triennali. Per gli studenti migliori, la possibilità di proseguire altri due anni sino alla laurea specialistica. Nasceva così una nuova struttura a due livelli, il cosiddetto modello "tre più due", in cui il vecchio corso universitario veniva rimpiazzato dai "moduli didattici", ciascuno con il suo numero di crediti: così i vecchi "esamoni" venivano suddivisi in due o tre "esamini", con un carico di lavoro più delimitato. Insomma, un'università più abbordabile, quella che è uscita dalla riforma del 1999 (almeno nelle intenzioni dei suoi promotori), con la speranza di ridurre gli abbandoni e accorciare i tempi per conseguire la laurea.
Ma il mercato del lavoro come ha accolto le nuove lauree triennali? È una domanda che si pongono, prima di tutto, gli studenti e le loro famiglie. Il rischio è quello di un'inflazione dei titoli universitari. Infatti, se le lauree triennali vengono considerate di "serie B" perché più brevi e abbordabili, gli studenti sentono di "non avere niente in mano" e si iscrivono in gran massa alle lauree specialistiche. Un po' come accade già ora ai neodiplomati che si iscrivono all'università perché pensano, a torto o ragione, che il diploma valga poco o nulla. Si crea così un effetto a catena: dopo il diploma, gli studenti si riversano sulle triennali, ma dopo proseguono in massa perchè possedere una triennale serve davvero a ben poco, se i datori di lavoro pretenderanno una specialistica, e sempre più anche un master. Con esiti scoraggianti: invece di accorciare la durata delle carriere universitarie, di fatto la si allunga e, invece di rafforzare il valore di mercato delle lauree, lo si indebolisce. Non dimentichiamo, infatti, che nella vecchia università di élite, per quei pochi che riuscivano a completare l'università, si aprivano buone prospettive occupazionali. Ma che dire della situazione della massa dei nuovi laureati?
AlmaLaurea è un progetto nato anche per cercare risposte a queste domande. Come tutte le idee vincenti, ha il dono della semplicità. L'idea è mettere in rete gli atenei italiani, e sono ormai cinquanta quelli che hanno aderito all'iniziativa, avviata nel 1994 dall'Università di Bologna. Chiunque conosca il mondo accademico sa bene che questo risultato è, già di per sé, miracoloso. Agli atenei aderenti si chiede di raccogliere informazioni sui percorsi di studio e di lavoro dei propri laureati. In cambio, i loro curricula vengono messi on line e sono facilmente accessibili (anche in inglese) alle aziende italiane e straniere. Così AlmaLaurea è divenuta la più estesa banca dati europea a livello universitario e una preziosa vetrina per 850.000 giovani appena entrati nel mondo del lavoro.
Nel 2007 AlmaLaurea ha pubblicato il IX Rapporto sulla condizione occupazionale dei laureati: un'autentica miniera di informazioni che copre il 70 per cento dei neolaureati italiani, con dati sul rischio disoccupazione, sulle retribuzioni percepite, sulla diffusione dei lavori atipici, sulla corrispondenza tra studi effettuati e lavoro svolto, sulla partecipazione a stage e master. Inoltre, il monitoraggio dinamico dei percorsi lavorativi (a uno, tre e cinque anni dalla laurea) permette di leggere nella sua interezza la traiettoria di inserimento occupazionale dei neolaureati. I confronti con altri paesi europei consentono poi di leggere il caso italiano "in filigrana".
Il IX Rapporto si articola in tre parti. La prima offre uno sguardo d'insieme sulle conclusioni principali dell'indagine italiana, con linguaggio agevole e con la giusta enfasi sui risultati positivi. La seconda sezione comprende dodici approfondimenti tematici, a opera di alcuni dei maggiori esperti di istruzione in Italia. La terza parte apre lo sguardo sulla situazione europea e presenta i primi risultati di Reflex, un'importante ricerca sugli sbocchi occupazionali dei laureati nei paesi dell'Unione Europea.
Insomma, un volume davvero denso e un punto di riferimento ineludibile per ragionare sulle prospettive lavorative dei laureati italiani. Invece, il limite principale di questa ricerca è che arriva troppo presto, offrendo quindi conclusioni parziali e premature. Teniamo presente che la riforma dell'università è entrata pienamente a regime solo nel 2002. Questo significa che, in tempi recenti, dagli atenei italiani sono usciti tre diversi tipi di laureati: i "puri" che hanno iniziato con il nuovo ordinamento, gli "ibridi" che sono transitati dal vecchio al nuovo, i "vecchi" che hanno iniziato e finito con il vecchio ordinamento. Ora, se vogliamo valutare l'effetto della riforma universitaria, dovremmo confrontare gli esiti dei laureati pre e post riforma. Ma qui ci troviamo di fronte non a due, bensì a tre tipi di laureati e, quel che più conta, sono studenti molto diversi tra loro. Per esempio, basta fare due conti per vedere che i laureati triennalisti "puri" del 2003 sono autentici prodigi: hanno scelto gli atenei più solerti ad applicare la riforma e non hanno perso un mese di tempo per arrivare alla laurea. Per contro, gran parte dei laureati quadriennalisti del 2003, ossia dei "vecchi", erano studenti fuori corso. Come dire che rischiamo di confrontare i migliori del nuovo sistema con i peggiori del vecchio. Un autentico rompicapo: il problema è di quelli che rendono scricchiolante e ballerina qualsiasi conclusione di merito sugli effetti della riforma. Sia ben chiaro: questo problema viene ammesso a chiare lettere, ma forse poteva essere affrontato con maggior cura.
In conclusione ci si può domandare se valesse la pena o meno di riformare il nostro sistema universitario. Prendiamo due soli dati, giusto per mettere appetito. AlmaLaurea stima che il 64,8 per cento dei laureati di primo livello prosegue alla specialistica. Un valore decisamente elevato, un vero e proprio esodo di massa verso il livello successivo. Cosa succede, invece, a chi decide di cercarsi un lavoro? Nel 2006, a un anno di distanza dalla laurea, i triennalisti guadagnavano 968 euro al mese: una miseria. D'accordo, questo valore salirà con l'anzianità di servizio e, al confronto con i redditi dei diplomati, i triennalisti possono comunque sentirsi fortunati, ma è pure vero che i loro incrementi salariali saranno lenti e modesti, anche a cinque anni dalla laurea. Ma se dopo la triennale si guadagna così poco, perché non tentare la ventura con una laurea specialistica? In pratica, si conferma lo scenario di inflazione dei titoli universitari abbozzato in precedenza. Forse questa può apparire una spiegazione un po' troppo venale dei troppo alti tassi di prosecuzione verso lauree specialistiche ma, sebbene il IX Rapporto offra anche qualche segnale incoraggiante sull'accoglienza riservata dal mercato alle nuove lauree, il problema resta: i dati di AlmaLaurea ci aiuteranno presto a capire se e quanto dobbiamo preoccuparci per il futuro dei nostri laureati.
Carlo Barone

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