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Il defunto odiava i pettegolezzi
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Il defunto odiava i pettegolezzi - Serena Vitale - copertina
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defunto odiava i pettegolezzi

Descrizione


Mosca, 14 aprile 1930. Intorno alle undici del mattino i telefoni si mettono a suonare tutti insieme, come indemoniati, diffondendo "l'oceanica notizia" del suicidio di Vladimir Majakovskij: uno sparo al cuore, che immediatamente trasporta il poeta nella costellazione delle giovani leggende. Per alcuni quella fine appare come un segno: è morta l'utopia rivoluzionaria. Ma c'è anche il coro dei filistei: si è ucciso perché aveva la sifilide; perché era oppresso dalle tasse; perché in questo modo i suoi libri andranno a ruba. E ci sono l'imbarazzo e l'irritazione della nomenklatura di fronte a quella "stupida, pusillanime morte", inconciliabile con la gioia di Stato. Ma che cosa succede davvero quella mattina nella minuscola stanza di una 'kommunalka' dove Majakovskij è da poco arrivato in compagnia di una giovane e bellissima attrice, sua amante? Studiando con acribia e passione le testimonianze dei contemporanei, i giornali dell'epoca, i documenti riemersi dagli archivi dopo il 1991 (dai verbali degli interrogatori ai "pettegolezzi" raccolti da informatori della polizia politica), sfatando le varie, pittoresche congetture formulate nel tempo, Serena Vitale ha ricostruito quello che ancora oggi è considerato, in Russia, uno dei grandi misteri - fu davvero suicidio? dell'epoca sovietica. E regala al lettore un romanzo-indagine che è anche un fervido omaggio a Majakovskij, realizzazione del suo estremo desiderio: parlare ai posteri - e "ai secoli, alla storia, al creato" -in versi.
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Dettagli

2015
21 maggio 2015
284 p., Brossura
9788845929915

Valutazioni e recensioni

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Graccobabeuf
Recensioni: 3/5
Una miniera di notizie

Molto interessante, una vera miniera di notizie ma troppo confuso, oppresso da un montaggio quasi ejzenstejniano che prevale sul contenuto, contorto e poco comprensibile in alcuni punti e strabordante nel voler mantenere tutto il libro in equilibrio instabile su un registro ironico che rende protagonista non tanto Maiakovskij quanto l'autrice. Peraltro indiscutibilmente bravissima, nonostante l'inspiegabile scelta di inserire nel testo molti brani del poeta con traduzioni diverse da quella, meravigliosa e insuperabile, di Angelo Maria Ripellino. Impossibile non citare le note, pessimamente organizzate, di difficilissima lettura e consultazione, e l' incomprensibile assenza dell'indice dei nomi.

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Cristiano Cant
Recensioni: 5/5

Un foro rosso appena sopra il capezzolo sinistro, a sporcare e forse migliorare "la sgargiante blusa gialla cucita con tre metri di tramonto". Lo trovarono così in quella stanza, "solo come l'ultimo occhio di chi va in cerca di ciechi". Pensare immobile dentro un letto un uomo di quella disumana bellezza, una colonna maschia degna del grido delle statue più perfette, sguardo davanti al quale anche il fuoco più crepitante avrebbe chinato la sua fiamma, smuove ancora adesso, a decenni di distanza, possenti brividi d'assurdo. Ma tutto era come un annuncio quasi in ogni suo verso: "Voglio essere capito nel mio paese./E se è impossibile pretesa, poco importa./Per il paese passerò di sbieco,/quasi obliqua pioggia". Quando la vita dà alloggio a certe menti, ospita risa e spasmi di uomini siffatti, e quando poi, così presto, ne tocca amaramente la fine, ogni passo che ne succede è lacrima di deserto, sconfitta sociale, un'epoca intera marcita sotto il tacco eterno dell'ingiusto. Ma un fatto è senz'altro certo, e cioè che anche la morte accolse quest'uomo "a piena voce", persa e innamorata di quella libertà che lo travolse e lo guidò in ogni attimo, musa troppo vorace per consegnarsi a inutili contegni, a bussole misurate: "Io, svuotacessi e acquaiolo,/dalla rivoluzione mobilitato,/lasciai le nobiliari serre della poesia,/donnetta capricciosa,/per il fronte..../Per voi agili e sani/il poeta ha leccato gli sputi della tisi/con la scabra lingua del manifesto". Pur dentro la sua indagine nel duro gioco della cronaca e nei meandri di un fragile mistero, questo libro va amato come si ama e si amerà sempre lui, come un prolungamento dei suoi poemi urlati, della sua penna ruggente contro le grette arene edulcorate d'ottuso e l'elegante lebbra di un mondo che un solo poeta poteva tenere appeso in tre dita, ma verso cui fu clemente togliendosi lui da quegli spalti insensati. La vita è troppo piccola per spiriti abitati da una rarità eccezionale. Niente pettegolezzi per favore!

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Paolo da Venezia
Recensioni: 5/5

Raccolta di quattro trattati del maestro domenicano. Probabilmente il migliore modo per introdurre Meister Eckhart a chi non lo conosce e per facilitare la comprensione degli altri suoi scritti, come i sermoni.

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Voce della critica

Nel radioso avvenire della dittatura del proletariato il retaggio del ribelle byronismo russo è stato incarnato da Majakovskij, un io-poema gulliveriano che con il suo suicidio, estremo approdo di una scalmanata e aspra angoscia, ha rivelato i paradossi terminali di una rivoluzione che, "disperando nell'amore", avrebbe dovuto inverare nella storia la "grande eresia dei socialisti". La "smagliante fioritura" della poesia russa dell'inizio del XIX secolo, secondo Roman Jakobson (amico e sodale di Majakovskij), ha avuto una rinnovata efflorescenza nel primo ventennio del XX secolo: in entrambi i casi, l'epilogo è stato la "prematura fine tragica di tutti i grandi poeti". Tutta l'epoca che va da Puškin a Majakovskij è contrassegnata dal byronismo russo, quale orientamento autonomo che ha rivelato, anche attraverso una sorta di poesia della politica, le questioni insolute e tormentose che dilaniano l'autocoscienza della Russia. Riannodando il legame spezzato dei tempi, Serena Vitale (autrice di Il bottone di Puškin, Adelphi, 1995, una inchiesta narrativa sulla morte di Puškin ucciso in duello da Georges d'Anthés) ha scritto una sorta di polifonico epos lirico-investigativo per svelare, al di là dei pettegolezzi tanto odiati dal poeta, la verità sul suicidio di Majakovskij, ricostruendo, a partire dal 14 aprile del 1930, con acribia indagatrice gli ultimi giorni del byronismo russo. Sottratta all'apologetica monumentalizzante che ha consacrato il cliché del "massimo poeta rivoluzionario", la vicenda poetica ed esistenziale di Majakovskij, come quella di Puškin, va considerata dal punto di vista della morte che fa emergere, al di là dei luoghi comuni, l'Atlantide sommersa del byronismo russo nel suo perenne duello contro la volgarità compiaciuta del byt, della "vita quotidiana, feriale, routine, modus vivendi –anzi moriendi". Il pathos rivoluzionario stava sprofondando nel byt e nel 1923, nel corso di un periodo di reclusione in una sorta di volontario e wildiano carcere di Reading, Majakovskij scrisse Di questo, movimento terminale di quel concerto d'addio iniziato nel 1915 con Il flauto di vertebre, dove il poeta si pone il dilemma amletico di "mettere il punto / di una pallottola" alla sua fine. Come ha rilevato Ripellino, l'opera di Majakovskij è contrassegnata da una "corrosiva tanatomania" e da reiterati presagi di morte che fanno da contrappunto alla profezia rivoluzionaria che attribuisce al proletariato una valenza soteriologica. Tale tanatomania è un retaggio del byronismo russo; nel XIX secolo, infatti, il suicidio divenne in Russia una istituzione culturale: commentando gli Annali di Tacito, Puškin, estimatore di Seneca, considera il duello e il suicidio nobile come una funzione rituale per la restaurazione del proprio onore. Sul limitare dell'epoca staliniana, prima che l'epurazione della società sovietica sfociasse nello šigalëvismo del 1937 (inizio e acme dell'era delle vittime del grande terrore), l'intelligencija fu colta (come nel caso di Esenin) dalla sindrome di Kirillov, personaggio dei Demoni di Dostoevskij e assertore del suicidio logico, quale affermazione suprema sia della propria personalità, scaturita dalla consapevolezza dell'impossibilità di strappare la gioia ai giorni futuri, fino all'autodivinizzazione, sia della propria libertà illimitata. Come Byron, Majakovskij è un poeta dell'orgoglio: Pasternak, infatti, sostiene che Majakovskij, ultimo byroniano russo, si è sparato per orgoglio, per aver "condannato qualcosa in sé o attorno a sé con cui non poteva conciliarsi il suo amor proprio". Nell'epos ironico-lirico di Majakovskij, scevro dal realismo della partijnost'e dalle decrepitezze del manierismo futurista, risuona il rombo-ritmo del tempo musicale dell'impetuosa rivoluzione-amore, "scatenato carnevale dei giorni irrequieti", che si era spenta nella cenere degli anniversari, facendo apparire la spettrale Repsovia come il paese dei sepolcri nel quale si poteva sfogliare solo il "volume delle tombe". Lo scisma della rivoluzione dall'amore respinge ai margini del mondo nuovo colui che soffre e continua a ribellarsi. La rivoluzione d'ottobre aveva realizzato solo la prima parte del suo programma, la distruzione, e non aveva forgiato l'uomo nuovo ma l'homunculus sovietico neofilisteo compiaciuto della propria esistenza volgare ed eterodiretta dalla catechesi ideologica. Majakovskij ha infranto la dogmatica della feccia filistea mostrando che la vita non era diventata più felice e che l'edificazione del socialismo non aveva abolito la sofferenza personale. Majakovskij è rimasto schiacciato dal peso della sofferenza e, nel tedioso ordine imbandierato di rosso, aveva iniziato a sbadigliare di noia e si era suicidato. Intorno al cadavere irrequieto di Majakovskij si è scatenata una interminabile notte di Valpurga, descritta magistralmente da Serena Vitale, nella quale appaiono gli spettri delle aspiranti vedove di Majakovskij (Lili Brik, Tat'jana Jakovleva, Veronika Polonskaja), muse rivali che lottano tra loro per affermare post-mortem il primato di Amata del poeta, dei filistei letterati che indulgono in ogni sorta di malevolente pettegolezzo (Gor'kij, l'ingegnere di anime, fece circolare la diceria che il poeta fosse sifilitico) e dei cekisti che dall'olimpo dello spionaggio metafisico hanno suggerito al poeta il suicidio donandogli una pistola (come nel caso del cekista Agranov , il "boia dell'intelligencija"), facendola sparire e riapparire per il bene della causa: una "Browning di troppo" e un poeta di meno. Mentre la nuova terra e il nuovo cielo del socialismo apparivano come un mistero buffo con un triste finale aperto, il suicidio di Majakovskij è un mistero tragico intorno al quale si è sgranato il rosario delle illazioni, delle rivelazioni e dei pettegolezzi: per Ripellino, la turba dei critici e dei testimoni, "turisti fastidiosi", ha impedito di vedere il vero volto di Majakovskij, artista polifonico e poeta in amore che non può essere ridotto al vieto cliché di bardo della rivoluzione. Dipanando la trama che è stata intessuta intorno al cadavere irrequieto del poeta, Vitale vede con lucidità l'autentica figura di Majakovskij: pur nei suoi sdoppiamenti, il poeta non era un suicida pusillanime che, con il suo Io odioso e disertore, aveva deciso di abbandonare l'eden proletario in nome di uno sconfinato e insoddisfatto amore. La fatalità suicida di Majakovskij ha svelato, per Vitale, sia la fatalità meschina delle realtà sovietica, sia il dissidio incomponibile tra il mandato d'amore e il mandato ideologico, tra la lunga durata rivoluzionaria della poesia e l'inevitabile decomposizione delle rivoluzioni storiche. Per Marina Cvetaeva, Majakovskij, Omero ironico della rivoluzione, ha freddato se stesso come un nemico: il poeta è stato il d'Anthès di se stesso e ha assassinato in duello il cittadino dell'eden proletario. Il suicidio lirico del poeta è un atto eroico e una festa, per questo Majakovskij continua ad essere il primo e unico uomo del futuro, un cadavere irrequieto con l'"eternità di scorta" (come Puškin) che, destandosi dalla morte-incantesimo e sollevandosi dal "letto della maldicenza", è destinato, secondo Pasternak, alla resurrezione permanente e a rimanere eternamente bello, ventiduenne, una nuvola in calzoni come aveva predetto nel suo tetrattico.   Roberto Valle  

 

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Un omicidio, un suicidio, semplicemente una morte? Serena Vitale ci parla di Majakovskij, poeta dell’avanguardia russa, espressione culturale di quella rivoluzione bolscevica che modificò il destino della nazione euro-asiatica e dell’intera area orientale.

Odiato, amato, eccentrico, sbruffone, genio assoluto. Se ne sono dette tante sul suo conto, in fondo è il destino dei grandi. Sul loro conto il giudizio dei posteri non è mai unanime e Majakovskij non è stato sottratto a questa sorte. Ma la Vitale parte dalla sua morte. 14 aprile 1930. Quel giorno il trentasettenne poeta russo si tolse la vita. O meglio questa è la verità ufficiale. Ma potrebbe essere successo altro?

Sia ben chiaro, l’autrice non impone una sua tesi, si limita solo a presentarci un caso. Tramite articoli e documenti che fino al 1991 sono rimasti custoditi negli inaccessibili archivi dell’ex Unione Sovietica, vengono ricostruiti i giorni che precedono e susseguono la morte del poeta. Una vita ingarbugliata la sua, in cui si intrecciano amori, invidie e per l’appunto pettegolezzi. Proprio quelli che lui odiava.

Ma la Vitale va oltre. Ci consegna un Majakovskij inedito che nessuno ha mai conosciuto. Ci fa entrare nel suo intimo. Veniamo a conoscenza del suo carattere egocentrico. Il poeta russo era uno scrittore che mal digeriva le critiche. Era un amante possessivo. Un uomo perennemente in crisi, dilaniato dai sensi di colpa, dalla paura di rimanere solo e di perdere la popolarità. Bastava poco per ferire questo “compagno” alto più di un metro e novanta.

Particolarmente interessante è anche il modo in cui la Vitale ci fa entrare in questa storia. Le testimonianze degli amici e delle amanti di Majakovskij vengono disseminate con attenzione nel testo. Né se ne fa abuso, né vengono prese per oro colato. Questo perché lo scopo dell’autrice non è quello di ricostruire un’indagine ma di farci conoscere esaustivamente un fatto sepolto da ottantasei anni di silenzio.

Alla fine del libro non arriveremo a nessuna conclusione. Non sapremo mai se Majakovskij si è ucciso o è stato assassinato perché inviso al Cremlino. Sono solo dei sospetti e tali rimarranno. Come detto, lo scopo del libro è un altro. Farci conoscere un uomo, un poeta, la sua nazione e la sua epoca.

Chi non conosce Majakovskij se ne farà un’idea, chi lo ha sempre apprezzato ne rimarrà ancor più affascinato.

Recensione di Martino Ciano

 

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La recensione di IBS



Vincitore Premio Mondello 2016 - Critica


L’autrice è riuscita a fare della morte, nel 1930, del poeta russo Vladimir Majakovskij un giallo appassionante. Con articoli di giornale, testimonianze, e piantina del luogo del «delitto». - Vanity Fair


Majakovskij non "mise alla prova" il destino. Quanto alla mano - la destra o la sinistra - con cui si sparò... Si sparò al cuore. Questo conta.


Serena Vitale punta la lente del suo cannocchiale sulle lancette di un orologio russo, su una rivoltella, su una giacca macchiata di sangue all’altezza del cuore di colui che la indossava. Come già aveva fatto con Puskin e il suo proverbiale bottone, dall’osservazione di oggetti apparentemente trascurabili scaturisce un’indagine capace di mettere a nudo un intero momento storico, in tutta la sua grandiosa complessità.
Sono quasi le undici di un mattino moscovita. È il 14 aprile 1930, e nello studio di Vladimir Majakovskij, il grande poeta, echeggia uno sparo. A riascoltare quel boato, a immaginare l’odore della cordite che dovette accogliere la Polizia che pochi minuti dopo entrò in quell’appartamento, c’è perfino da stupirsi che qualcuno, all’epoca, se ne sia potuto sorprendere. “Questa è via Žukovskij?… Questa è via Majakovskij da millenni:/qui si è sparato davanti alla casa della donna amata” aveva scritto lo stesso Vladimir quindici anni prima di passare all’atto.
Si sarebbe potuta chiedere profezia più esatta ad un poeta i cui versi risuonano ancora oggi di una simile potenza oracolare?
Eppure i dubbi rimangono. Fu davvero un suicidio, indotto dall’amore frustrato per una donna che lo rifiutava? Oppure il poeta, irriducibile a ogni retorica di Partito, “fu suicidato” dalla polizia politica?
Come si scoprirà, leggendo l’appassionata e accuratissima indagine di Serena Vitale, certe domande vanno lasciate risuonare più a lungo degli spari che le hanno provocate, perché i silenzi che ad esse fanno seguito possono aiutare a comprendere meglio la Storia.
Attorno ad un “momento fatale”, l’autrice intesse una febbrile elegia per l’anima mercuriale di un grande poeta, veloce e onnivoro nella sua poesia quanto fu irrequieto nel vivere.
Nell’aura delle cose e dei fatti che segnarono quella vicenda umana straordinaria, Serena Vitale addensa l’intero clima di un’epoca terribile, e ce ne restituisce l’implacabile incedere con la passione del narratore e il rigore dello storico.

A cura di Wuz.it

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Serena Vitale

1945, Brindisi

Allieva di Angelo Maria Ripellino, diventa una grande conoscitrice della lingua e della letteratura russa e una delle personalità più competenti nel campo. Ha vissuto a Mosca e a Praga e dal 1972 insegna Lingua e Letteratura russa. Consulente editoriale, critica letteraria, ha tradotto migliaia di pagine dal ceco e dal russo. Tra i suoi libri: Il bottone di Puskin, Adelphi (premio Viareggio per la saggistica, Comisso per la biografia e Basilicata per la narrativa), La casa di ghiaccio, Mondadori (Premio Bagutta, Premio Piero Chiara), L’imbroglio del turbante, Mondadori (premio Pen Club, Premio Grinzane Cavour). Nel 2015 esce per Adelphi Il defunto odiava i pettegolezzi.

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