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Della guerra e dell'aria
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1992
1 febbraio 1996
96 p.
9788876481437

Voce della critica


recensione di Lugli, A., L'Indice 1992, n.10

Non solo guerra e non solo teorie sulla catastrofe mondiale. In apertura sono gli avvenimenti stessi a portare tra le righe un giudizio politico: la fine dei blocchi, un'unica potenza che detiene al massimo grado gli strumenti della tecnologia bellica, un mastino che esercita i suoi muscoli per il controllo di un territorio che coincide con il mondo intero. E poi di nuovo una guerra lampo, che vuole essere "pulita", un'astrazione per cui questo teatro sanguinoso finisce per assomigliare una volta di più al nostro quotidiano: "alla vita civile e sentimentale di tutti i giorni, dove ogni traccia di morte e di lutto viene cancellata dalla sfera privata così singolare accanimento".
Boatto è stato un critico militante a Roma alla fine degli anni sessanta dove ha diretto o collaborato alle riviste del risveglio delle avanguardie, soprattutto dell'Arte povera. Ha lavorato sulla Pop Art, su Duchamp, ma si è allontanato completamente da mostre e musei e non sembra avere nessuna posizione accademica da difendere o da occupare. Forse anche per questo riesce miracolosamente a spostarsi su un terreno non suo, o non specificamente suo. In realtà un terreno che non dovrebbe appartenere in esclusiva ai soliti politologi, opinionisti o catastrofisti. Quello di Boatto è un singolare lavoro trasversale che si porta dietro buone letture e soprattutto l'attrezzatura preziosa di anni di lavoro con gli artisti, a decifrare il "moderno". Lo spettatore di questa guerra vista interamente alla televisione non ha dimenticato nulla: gli oltre duemila aerei impiegati col sostegno di cinquanta satelliti, migliaia di missioni, veicoli in rapida dissolvenza ripresi mentre decollano o mentre atterrano, quattro milioni di persone con la maschera antigas, un militare che in un flash brevissimo e involontario dichiara "è il nostro mestiere, ci pagano per questo".
La guerra è cambiata. Non ci ha mai abbandonato e dobbiamo ancora occuparci di guerra. Testimoniare, parlarne è una necessità che qui si accompagna al rifiuto austero di ogni seduzione dello spettacolo che ha rappresentato. In questo "secolo delle guerre" la macchina bellica ha avuto un'evoluzione totale. Ha segnato lo sviluppo della tecnologia con ammiratori entusiasti anche fra gli artisti. La guerra del Novecento, il fuoco, ha percorso in lungo e in largo il mondo. Ma ora lo ha occupato e lo sta occupando in un modo completamente inedito. La guerra totale, per Boatto, non è la guerra mondiale di tutti contro tutti o di un'unica potenza padrona. È la guerra che attraversa le sostanze elementari, che penetra ovunque, dalla terra, dove si è mossa dagli inizi della storia dell'uomo, all'acqua, già nel '15-'18, all'aria. Ora ha riempito il cielo di bombardieri, missili e satelliti che spiano il nemico giorno e notte. Il nemico si nasconde nel ventre della terra e gli uomini dell'aria risolvono tutto a colpi di bottoni. Evitano i corpo a corpo. Chi sta in alto sfugge a ogni contatto con la materia e con la morte. Non arriva nemmeno a conoscere il risultato delle distruzioni che ha causato. Paradossalmente la macchina, il missile conosce meglio l'obiettivo da colpire di chi ne scatena l'effetto. I nuovi soldati sono insostituibili e difesi dalle loro competenze più che specialistiche. Inevitabile ricordarsi, come fa intatto, di uno sguardo diverso, dell'udito e dell'odorato coinvolti a decifrare una realtà definita lino ai limiti del possibile, in un testimone di guerra straordinario come Ernst Junger. La prima guerra mondiale, la micidiale guerra terrestre, è stata raccontata con la cura maniacale che anticipa la "nuova oggettività" e insieme con il travaso continuo in un irreale, romantico residuo di magia o di orrore, dove tutto ha l'apparenza dell'incubo. Attraverso Junger "Nelle tempeste d'acciaio" si affaccia per la prima volta un nuovo vissuto della guerra, che assomiglia all'esperienza del moderno. Non perché ne rifletta esteriormente o mimeticamente i caratteri, solo perché la guerra è uno "stato di eccezione". Junger insegna ad affrontare questa terribile prova con un moto di allargamento e ripiegamento, dall'io che vive gli avvenimenti, ed è insieme cacciatore e selvaggina, e poi se ne distacca registrando freddamente quanto accade alla propria parte più "patetica" e vulnerabile. Nella sequenza giornaliera del diario del giovane soldato e nel breve momento serale di raccoglimento per scrivere, c'è la preziosa riunione dei frammenti e l'occasione unica di salvare il proprio io dall'annientamento. Qui è per Boatto l'indicazione dell'unico modo utile, ancora oggi di porsi di fronte al tremendum dell'orrore bellico: "... affrontare e rappresentare la guerra come ogni altra manifestazione del moderno. Il solo modo di sottrarsi alla sua presa distruttiva è di andarle incontro senza alcuna riserva, di osservarla sino in fondo, di porsi alla medesima altezza".
Boatto perciò lavora a leggere acutamente immagini, a capire quello che è passato sotto gli occhi di tutti. Questa guerra, rispetto alla prima, è stata riassorbita in pieno da un elemento opposto a quello della terra. L'aria ha rivelato le sue qualità: la leggerezza, la possibilità di azioni fulminee, che erano state solo biandamente anticipate nel corso dei due precedenti conflitti mondiali. Di mondiale adesso c'è questo sguardo continuo, prodotto dai mille occhi di un'avanzatissima tecnologia. Curioso che per capire un fenomeno che per tanti aspetti anticipa il futuro, si deva ricorrere agli elementi primi, alla terra, all'acqua, all'aria, al fuoco, nutriti via via, nella guerra, dal massimo di fisicità e insieme di artificio, con la macchina, greve sulla terra, sorprendente e insidiosa nel mare, quando emerge dall'acqua come un mostro degli abissi e nell'aria, leggera, slegata o quasi da ogni rapporto con la realtà. Gli aerei si scambiano carburante in volo come grossi animali completamente autosufficienti e adattati a un nuovo elemento.
Nella guerra terrestre c'è tutto un traguardare di distanze, di misurazioni, di calcoli e di traiettorie. L'urbanistica di intere città, i grandi viali da parata militare, i sistemi difensivi di torri e castelli ne sono stati il segno per secoli. Un reticolo terrestre che si è molto giovato dell'invenzione della prospettiva. La guerra terrestre ha prodotto la geometria bidimensionale del primo trattato bellico moderno, quello del prussiano von Clausewitz (da cui Boatto prende una parte del suo titolo "Della guerra"). La teoria di una battaglia è un'astrazione di punti da collegare con lo sguardo, di costruzione spaziale neoclassica. Come non pensare ai pittori, a David, ai teatri della razionalità portati sulla tela, agli obiettivi visivi che si sovrappongono in lunghe traiettorie nelle architetture delle ville e dei giardini settecenteschi: fontane lontane che si iscrivono nell'arcata centrale di un portico, palazzi e castelli che si allineano lungo la stessa traiettoria. L'occhio ritrova segni ordinati davanti a sé, ma anche la sensazione che tutto sia sotto controllo e che lo sguardo si lanci da parte a parte come un colpo di cannone.
La guerra dell'aria, la guerra dei radar, degli aerei invisibili, dei satelliti teleguidati ha opposto alla geometria piana della guerra terrestre l'infinito "rotondo", la proliferazione dei punti della sfera. Dal piano orizzontale tutto si è spostato sul piano verticale, al cui culmine sta la catastrofe finale della distruzione nucleare. C'è un nutrito immaginario della fine totale e insieme una sorta di non rappresentabilità, se non come testimonianza disperata. Qui si accende il primo riferimento figurativo. È il De Kooning della fine degli anni cinquanta, in una tavola letta come un evento distruttivo, non della forma, come sta avvenendo negli stessi anni per l'action painting, ma dello spazio annullato, della realtà disgregata e sparsa in mille frammenti. La bomba ha avuto comunque linguaggi e forme più che eloquenti per esprimersi nella realtà. Basta pensare alla metamorfosi terribile dei corpi umani stampati come ombre sui muri di Hiroshima dall'esplosione nucleare: l'effetto più brutale e insieme il testimone visivo più alto.
Era un gran tempo che nessuno si ricordava più dei presagi, di quanto passa per vie misteriose dentro l'immagine, dentro l'occhio. Ma non solo per capire attraverso il lavoro degli artisti, ma per ridare forza allo sguardo e unificare frammenti, e per rivedere come per la prima volta, quello in chi siamo immersi, che ci consuma. La realtà immediata va abbandonata per andare con forza dentro al mito, alle sue caverne oscure da cui escono lunghi fili, se ne ripercorrono le fonti o le versioni letterarie, come ha fatto Bachelard. Dedalo e Icaro volano fuori dal labirinto tra acqua e fuoco. Occupano l'aria per fuggire alla terra e alla morte, ma insieme segnano, con un'impresa vittoriosa e una catastrofe, l'inizio della dissoluzione dei quattro elementi. Il predominio assoluto dell'aria va al di là del moderno e può preannunciare la fine. La guerra verticale ha collocato nell'aria un unico occhio che osserva, controlla sopra di noi, e produce un flusso continuo di immagini moltiplicate, fluttuanti, puntiformi. Boatto si ricorda di Rauschenberg per quello strano universale processo mimetico che l'arte ha nei confronti della realtà, e che continua tuttora, anche se i critici d'arte sono sempre meno capaci di riconoscerlo. Si va di nuovo a toccare un punto che il postmoderno sembrava aver spazzato via, con l'orizzontalità e l'equivalenza di tutti i linguaggi. L'artista testimonia, esprime, capta. È esattamente quello che può fare ogni mente sensibile che si voglia abbandonare a una percezione profonda e che in qualche modo riesca a rimettere ordine. Una testimonianza che naturalmente non cambia la guerra, che non riesce a evitarla. E che per di più si esprime per canali minoritari, deboli, come quelli di un libro, di un'opera d'arte. Una testimonianza minata dall'angoscia e dall'impotenza. Rauschenberg ha raccolto sulla tela il fluttuare puntiforme delle immagini del nuovo spazio dell'aria invaso dall'occhio della telecamera e raccoglie anche reliquie visive dei nuovi abitatori del quarto elemento: il fungo atomico, il radar, il paracadute in caduta libera, il retino del teleschermo. Atomi di una nuova pittura di paesaggio, del nuovo paesaggio.
Cubisti e futuristi hanno frammentato e dinamizzato lo spazio su impulso della macchina, dell'aereo e della bomba. Esplosioni di parole e di rumori, paesaggi geometrizzati da una vista aerea, ma sempre la terra rette, linee, punti. Solo essere sollevati, andare più in alto. L'immaginazione barocca innalzava architetture e angeli sul capo dei fedeli. Ma fino al primo volo alto e basso possono solo essere il frutto di una proiezione fantastica o di un calcolo mirabile, come la veduta di Venezia a volo d'uccello di Jacopo de' Barbari. Dalle prime esperienze di aeropittura sembra innescarsi un gioco completamente diverso, quello della ricomposizione. Ma questo è ancora mimetismo.
Nelle collezioni enciclopediche cinquecentesche per significare la totalità, la circolarità della conoscenza, i reperti si spostavano in alto, occupavano interamente lo spazio, il pavimento, le pareti, il soffitto. Con Duchamp e Tatlin, tra il '14 e il '17 e più tardi con i surrealisti, gli oggetti tornano in alto. È la quintessenza del moderno, il ricorso allo stato di eccezione, prima ancora che un'operazione riferita all'aria. Ma il distacco dalla terra, l'affidarsi all'elemento più estraneo all'uomo hanno un equivalente metaforico ancora più forte nel ready-made di Duchamp, la proiezione di un oggetto spaesato, insignificante in sé, trasportato dalla vita quotidiana al museo. Nella guerra dell'aria l'oggetto spaesato è la terra, puntata dalle telecamere dei satelliti e dai bombardieri come un insetto trafitto sotto il microscopio.

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Conosci l'autore

Alberto Boatto

1929

Alberto Boatto (1929 - 2017) è stato una delle personalità più originali della critica d’arte in Italia dell’ultimo mezzo secolo. Sin dai primi anni Sessanta, ha alternato importanti studi su momenti salienti dell’avanguardia di primo Novecento (dada, Marcel Duchamp), sui caratteri estetici e culturali del moderno, dalle sue origini ottocentesche in avanti, e saggi militanti sulle tendenze più recenti delle arti visive (new dada, pop art, arte povera, arte concettuale) sempre colte al loro primissimo apparire. Ha fondato e diretto le riviste «cartabianca» e «Senzamargine» (1968-69) e «La città di Riga» (1976-77). Tra i suoi libri: Pop art (1967, nuova edizione Laterza 2015), Cerimoniale di messa a morte...

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