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Nel breve saggio sul discorso politico, Canfora analizza la connotazione della parola Demagogia dagli scrittori antichi fino ai giorni della massificazione consumistica.
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Non vorrei ripetere quanto già scritto in lode del prof. Canfora nelle due precedenti recensioni, mi preme solo sottolineare che si tratta di un piccolo (e intendo "piccolo" nel senso di breve) capolavoro per sintesi e profondità.
La cosa buona di Luciano Canfora è che è più cose contemporaneamente: filologo, antichista, storico, storico delle idee, studioso del pensiero politico. La cosa migliore di Luciano Canfora è che riesce ad essere più cose contemporaneamente sempre ad alti livelli. La cosa straordinaria di Luciano Canfora è che sa parlare e scrivere di ogni argomento in modo rigoroso, chiaro e stimolante. In più - e non è piccola aggiunta - ha il dono della sintesi e dell'ironia: le sue conferenze raramente superano la durata di un'ora, i suoi libri sono spesso di poche decine di pagine, entrambe le cose sono sempre pungenti e intellettualmente vivaci. Nel caso di "Demagogia", edito da Sellerio nel 1993, le qualità dell'autore ci sono tutte: in meno di cinquanta paginette Canfora ricostruisce con la pazienza e il puntiglio del filologo la storia della parola "demagogia" dalla sua prima attestazione nel 424 a.C. in una commedia di Aristofane ai giorni nostri, passando per Platone, Aristotele, Hobbes e Gramsci. E, come spesso in Canfora, l'ultimo sguardo è al presente, anzi, al futuro. "Andiamo dunque verso società sempre più demagogiche anche perché è entrato da tempo in grave crisi (...) il modello di società a base ideologica. La manipolazione involgarente delle masse è la nuova forma di discorso demagogico. Proprio mentre sembra favorire, attraverso i media, l'alfabetizzazione di massa, esso produce (...) un basso e torvo livello culturale e un generale ottundimento della capacità critica. (...) Il neo-razzismo aggressivo è (...) feroce ingrediente delle attuali società demagogiche. (...) La prospettiva sarebbe (...) quella di una esplosione di inusitata violenza fratricida, per la quale non mancano le premesse." (pp. 41-43) Come avrebbe detto Goya, il sonno delle ragione genera mostri. Ma forse Goya è stato ottimista: l'impressione è che per crearli basti che la ragione si stia per addormentare... Teniamola sveglia!
L'importanza delle parole, il tradimento di esse a fini personali e il vantaggio conseguente che se ne può trarre catturando una fetta di popolo al proprio consenso. Un falso legittimato con sapiente naturalezza, l'incanto seduttivo che dal tribuno feroce al retore raffinato storce e attrae al proprio indirizzo la volontà elettorale. Pericolo notissimo. Ma è qui la fascinazione, il gioco perverso nel quale - storicamente - ci avvolge questo studio, conducendoci nelle "stanze d'uso" di questa dinamica lessicale e mostrandocene tranelli e confusioni. Dall'indicare un faro onesto per la città il termine si rovescia definendo il vuoto oratore spessissimo in cattiva fede. Aristofane nei Cavalieri fa dire a un servo : "Ormai la demagogia - la guida del popolo - non tocca più a persone ben educate e perbene, è andata a finire nelle mani di un ignorante schifoso". Le lodi alla Maestria di Canfora corrono da sole, in punta di finissima analisi egli attracca la sua riflessione nei tanti passaggi ai quali la Demagogia si è riferita. Strumentale? Veritiera? Da Aristotele e la sua considerazione negativa della stessa, dove non si risparmia nulla del personale politico ateniese totalmente deteriore, al Grand Dictionnaire di Pierre Larousse dove si legge: "Il demagogo crede di guidare le folle, ma in realtà ne subisce il movimento piuttosto che imprimerlo. Tutti gli uomini di cuore che hanno preso parte alla Rivoluzione Francese sono trattati da demagoghi: Robespierre, Danton, Mirabeau, Lafayette, lo sono? Sicuramente". Ecco lo snodo. Che saldo rimane dal percorso di questa realtà? Un povero specchio su cui si infrangono propositi già dolosi? Una tecnica di rara bellezza oracolare? Canfora legge questa parola come inevitabilmente trainante e centrale nei panorami mondiali, "anche perché da tempo è entrato in grave crisi il modello di società a base ideologica". Direi allora libro perfetto, attualissimo per queste bercianti, orride e false settimane elettorali italiane.
Recensioni
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scheda di Bongiovanni, B., L'Indice 1994, n. 3
"Demagogia", a differenza di altre parole-chiave (forse "democrazia", sicuramente "socialismo", "anarchismo" e "marxismo"), non nasce dotata di un significato "negativo" destinato in seguito a rovesciarsi. Ha inizio, in Aristofane, come parola "neutra" che significa "guida del popolo". Le cose cambiano con l'avvento della democrazia ateniese (tra Efialte e Peride) e con gli istituti della partecipazione popolare. In Platone la democrazia diventa demagogia e il "capo popolare" un demagogo. In Aristotele, che non rifiuta la democrazia, ma la imbriglia nella 'politìa elitistico-rappresentativa, la demagogia - qui nasce la parola moderna - è la pratica "degli sfacciati desiderosi solo di compiacere la massa". Roma, dove il diritto ha concettualmente la meglio sulla partecipazione, ignora la parola "demagogia". La si ritrova in Bossuet, che la utilizza a proposito dei protestanti, ritenuti "oratori che si rendono onnipotenti sul popolaccio adulandolo". Anche per Hobbes il demagogo è un oratore efficace che opera in regime democratico, regime dove le chiacchiere hanno un gran peso. Per lo stesso Swift il demagogo è un "leader in a popular state". Con la Restaurazione, demagoghi saranno soprattutto i giacobini e i democratici: la parola si conferma così un'arma ideologica nelle mani della destra. Nel Novecento, con i fascismi e i totalitarismi, la "demagogia", che non smarrisce il suo significato negativo, diventa tuttavia un'arma polemica utilizzata dalla sinistra e dai democratici. La storia delle parole, come si vede e come Canfora ci fa vedere, si rivela una volta di più una miniera inesauribile.
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