La voce narrativa di Luce d'Eramo è una di quelle che, oltrepassando i margini spazio-temporali della lettura, arrivano a infiltrarsi nel profondo, in virtù della capacità di suscitare interrogativi e rovelli che non si lasciano tacitare facilmente. Ce ne accorgiamo una volta di più rileggendo Deviazione, il suo romanzo d'esordio che piombò con la violenza di un meteorite sulla scena letteraria degli anni settanta e di recente ripubblicato da Feltrinelli (con un'introduzione di Nadia Fusini e apparati a cura di Marco d'Eramo). Questa riedizione e il convegno promosso in suo onore a Roma, lo scorso marzo, dalla rivista "Leggendaria" (diretta da Anna Maria Crispino) e dall'editore Feltrinelli ("Luce d'Eramo: come intendersi con l'altro") sono valsi a riaprire il discorso su una delle presenze più luminose e significative del nostro Novecento. Nata a Reims nel 1925 da genitori italiani fascisti tornati in Italia nel 1938, Luce d'Eramo aveva iniziato a scrivere i suoi ricordi negli anni cinquanta, ma occorreranno diversi anni di sedimentazione per far maturare Deviazione, una storia di scelte e di eventi talmente forti da risultare "scandalosa". Non ha nemmeno diciannove anni, questa ragazza impetuosa e fiera ‒ chiamata "la petite macaroni" in Francia, "la francesina" in Italia quando, l'8 febbraio del 1944, fugge di casa, con i ritratti di Hitler e Mussolini nello zaino, per "assaggiare la verità sui Lager, sui valori politici e sulla guerra". Lavora come operaia all'IG Farben di Francoforte-Höchst e lì, a contatto con i deportati e i prigionieri politici, matura un consapevole cambiamento; qualche mese dopo è tra gli organizzatori di uno sciopero collettivo che fallisce. Ma, mentre i suoi compagni vengono deportati a Dachau, lei, figlia di un sottosegretario fascista della Repubblica di Salò, viene rimpatriata. "Figlia di chi ero, qualunque cosa facevo era un lusso": così, ecco lo scarto imprevedibile, la seconda deviazione che non sarà facile capire nemmeno per lei: a Verona, il 2 agosto 1944, getta via i documenti e si fa arrestare dalle SS, destinazione Dachau. E quando infine riuscirà a fuggire avventurosamente dal Lager, il destino ha in serbo un'ultima deviazione: a Magonza, dove aveva trovato rifugio, viene travolta dal crollo di un muro mentre sta estraendo i feriti da un edificio bombardato; resterà paralizzata. Difficilissimo il rientro in Italia per una doppiamente emarginata come lei, che nei Lager c'era andata volontariamente e che per di più allo sguardo sociale è solo una "povera" paralitica. È nel mettere insieme gli acuminati ma anche vitalissimi frammenti della sua esistenza e nel dialogare incessantemente e talvolta impietosamente con sé stessa la ragazza di un tempo e ciò che era diventata, al fuoco di tante esperienze che Luce d'Eramo affina il suo singolare talento, umano prima ancora che narrativo. Se è vero che in ognuno di noi, come afferma Julia Kristeva rileggendo un celebre saggio freudiano, c'è un fondo di inquietante estraneità, è proprio con questa componente, determinante anche il nostro rapporto con gli altri, che la scrittrice ha imparato a confrontarsi: senza paura, e con un pizzico di umorismo. Incontrarsi con l'altro, di cui non si conoscono la storia, le ragioni, i sommovimenti interiori è stato il nodo tematico privilegiato non solo dei suoi numerosi articoli e interventi saggistici, ma anche di tutti i suoi romanzi: l'altro è stato, di volta in volta, un gruppo di terroristi rossi (Nucleo Zero, 1981, trasformato in film da Carlo Lizzani); un'anziana combattiva signora che non si arrende alla spenta emarginazione di una casa di riposo (Ultima luna, 1993); un neonazista ossessivamente rinserrato nel suo programmatico rifiuto dell'altro (Si prega di non disturbare, 1995); una donna etichettata come pazza ma talmente innamorata della vita da goderne ogni più piccolo dettaglio (Una strana fortuna, 1997). Ma l'altro che le stava più a cuore è la figurazione della più radicale diversità: è Nacolden, l'extraterrestre che si accampa, insieme ad altri suoi "complanetari" come lui gentili, ricettivi e alieni da ogni forma di razzismo, al centro di Partiranno (1986) il romanzo che, come lei stessa racconta, le ha aperto un grande spazio mentale, regalandole uno dei periodi più felici della sua vita. È forse proprio in quest'opera che le dimensioni dell'umorismo e del gioco, da sempre compagne della sua scrittura, a partire da Deviazione (indimenticabile la scena in cui la giovane protagonista, costretta sulla carrozzella ma non arresa, addestra i suoi amici americani all'antico e strapaesano gioco del "cocuzzaro"), trovano il loro territorio d'elezione, e il divertimento viene ricondotto alla sua radice etimologica di diversione, allontanamento da un'ideologia restrittiva, da un ruolo sociale prestabilito e perfino dalla tirannia del proprio io. Non c'è dunque da stupirsi che, insofferente di ogni catalogazione di stampo terrestre, questa scrittrice così sensibile, ironica, anticonformista abbia scelto per sé la denominazione di "aliena". Maria Vittoria Vittori
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