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Accompagnata da una limpida e utile introduzione di Maurizio Cucchi, ottimo esempio di servizio ermeneutico spendibile a tutti i livelli di destinazione, ecco finalmente l'intera opera in versi di Nelo Risi, disponibile ora a rappresentare un vero e proprio modello tipologico, soprattutto (e appunto il curatore lo mette in luce molto bene) per quanto riguarda la vicenda di una generazione che ha saputo attraversare Montale senza affondare in regressioni frammentistiche o, viceversa, senza avventurarsi in poco consanguinei orizzonti sperimentali.
Per verità, Risi sperimentale lo è. Quando assistiamo alla costante prevalenza della funzione referenziale su quella "poetica", e quando poi osserviamo attentamente come questo rischio di azzeramento venga riscattato grazie alla padronanza delle risorse supplementari e complementari del ritmo e della sintassi, ebbene non possiamo non pensare che rispetto ad altri coetanei il grado di rischio prospettico affrontato da Risi sia stato certamente più elevato, e i risultati più espansi, più duri e innovativi. Se pensiamo a una certa sua predilezione per la paratassi, dobbiamo aggiungere che risponde a almeno due elementi fondamentali del progetto: "rompere il collo" all'eloquenza tagliando fuori l'estetico e mettere in movimento una poesia cosale e oggettuale capace di recepire quantità di realtà storica in atto inusitate. In questo senso l'autore riesce ad abbattere con naturalezza le barriere tra pubblico e privato, e questa dote non può anche non essere debitrice per certi versi all'atmosfera del Sessantotto e dintorni che Risi ha vissuto da spettatore disincantato ma certamente non indifferente, critico e malizioso ma certo non regressivo. Semmai è il tipo di denuncia che definisce la sua formazione critica, che è quella di un ceto, di un tempo e di un luogo: la borghesia professionale milanese tra Otto e Novecento con quel suo modo di partecipare e di difendersi dalla storia, un modo che definirei diagnostico e clinico, tra curiosità ravvicinata, ironia controllata, legame interno e tendenza a strappi di dispersione cosmopolitica.
In questo clima la denuncia delle contraddizioni, che in Risi ha potuto incontrarsi con gli anni della contestazione e intrattenere un dialogo a distanza non dichiarato, ha un tono illuministico e elitario, senza perciò la ricerca di sbocchi dialettici: difficile trovare un poeta più di lui lontano da Fortini, proprio nel momento in cui talune incandescenze oggettive del loro discorso sembrerebbero poter colludere. Quando si parla del Risi "civilissimo" attorno agli anni sessanta (ma lo rimarrà costantemente) occorre precisare che siamo di fronte a una personalità creativa che mostra di non volere abbandonare all'inerzia compiacente il quadro delle contraddizioni, ma che intende intervenire sul nesso tra opulenza del circuito produzione-consumo e manifestazione pubblica di autocoscienza dell'intellettuale. Senonché il suo modo, non dialettico, appunto, ma fortemente connesso a una tradizione letteraria progressiva (il suo Leopardi, per esempio, assieme ai molto citati Parini e Manzoni), tende a guardare piuttosto, senza ombra di utopia, entro la crudezza biologica e antropologica delle contraddizioni. Fino a questi anni, ma ben prima di questi anni, vero uomo planetario, coscienza letteralmente "globale", Risi convoca cupi scenari diagnostici disegnati con l'assoluta oggettività di che è ancorato ai fatti, senza catastrofismi e senza toni apocalittici: lasciando parlare le cose, appunto, i nudi fatti, l'energia senza commento di ciò che avviene.
Contemporaneamente e in questo affiliato alla cordata dei pessimisti e lui stesso non senza venature di tipo nichilistico è in grado di fare ricorso alla saldezza sociale e storica dell'autodefinizione dell'io: per Risi l'io non è "un altro"come per Rimbaud, ma è il centro del funzionamento costante di un presupposto di relazione pragmatica e corrisponde al chiamarsi fuori dal disastro della deriva psichica dell'io scisso, in favore delle grandi strutture della vicenda umana, quella che via via si è venuta chiamando storia. Chi parla in questo modo è una borghesia che esce dal culmine cruento del "secolo breve" (o semplicemente del secolo, per dirla con Badiou) e che è dotata, da un lato, di grande avidità per il vivere e, dall'altro, di un pessimismo irrecuperabile riguardo all'avventura non finalistica della specie umana. Su questo scenario si vanno a innestare due tra i grandi temi dell'opera risiana, quello del viaggio (che Silvio Ramat ricollega al diffuso sentimento della fuga) e quello del corpo, che sostiene pagine di forte visività anche erotica, in un quadro di passione impura, oltranzistica e contemporaneamente distanziata, ma non di rado carica di tenerezza, per il vivente.
Giorgio Luzzi
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