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scheda di Bongiovanni, B., L'Indice 1998, n. 5
"La Segreteria della Cgil (...) ravvisa in questi luttuosi avvenimenti la condanna storica e definitiva di metodi antidemocratici di governo e di direzione politica che determinano il distacco tra dirigenti e masse popolari". Così recitava un documento sulla rivolta ungherese del 1956 approvato da Giuseppe Di Vittorio e dagli altri membri della segreteria della Cgil il 26 ottobre. Il libro di Guerra ricostruisce questo dissenso, il suo ripiegamento e la sua disfatta, retrocedendo, nella prima parte, alla battaglia tormentata, ma cionondimeno esplicita, condotta da Di Vittorio sin dai primi anni cinquanta al fine di rendere autonomo il sindacato dal partito e di superare, a Ovest come a Est, la prospettiva leninista che fa del sindacato stesso una semplice cinghia di trasmissione della "decisione" politica del gruppo dirigente comunista. L'atteggiamento assunto dalla Cgil nel 1956, dopo che già Di Vittorio aveva individuato nel rapporto di Chrusÿcÿëv al XX Congresso del Pcus una straordinaria occasione, non fu dunque un fulmine a ciel sereno, ma il punto d'arrivo di un percorso da tempo intrapreso. Mentre gli intellettuali si autoconvocavano - e contro di loro serpeggiavano nel Pci oscurantistiche prese di posizione del tutto omologhe al noto "culturame" di Scelba - calò durissimo il richiamo all'ordine di Togliatti. Si apre, a questo punto, nel libro, uno squarcio di "virtual history", un genere in voga nei paesi anglosassoni. Che sarebbe successo se Di Vittorio, "l'uomo più popolare nella sinistra, più di Togliatti" secondo il giudizio espresso nella breve appendice da Trentin, avesse prevalso? L'interrogativo, una volta tanto, aiuta a comprendere quel che veramente accadde.
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