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COLERIDGE, SAMUEL TAYLOR, Diari 1794-1819, Lubrina, 1991
COLERIDGE, SAMUEL TAYLOR, Biographia Literaria, Editori Riuniti, 1991
recensione di Rognoni, F., L'Indice 1992, n. 4
Per una fortunata coincidenza, la prima traduzione integrale della "Biographia Literaria" (1817) di Coleridge (1772-1834) esce a ridosso di un'intelligente, misurata antologia dei suoi smisurati "Notebooks" (inaugurata nel 1957, l'edizione critica Coburn consta per ora di sei massicci volumi di testo e altrettanti di commento). E se solo con cautela si può affermare anche per i diari di Coleridge, quello che è vere per la maggior parte dei diari degli scrittori - che contengono, in nuce e erraticamente, le intuizioni che nelle opere compiute trovano forma definitiva -, non è certo perché qui manchino 'apercus' e sorprendenti anticipazioni: semmai è la "Biographia" che, a dispetto della 'finis' in lettere greche che la suggella, resta uno zibaldone, uno splendido coacervo mareggiante, un'infinita anticipazione.
In un appunto del settembre-ottobre 1803 (cioè quando h sua voce di poeta stava definitivamente tacendosi, e William Wordsworth, l'amico con cui, solo cinque anni prima, Coleridge aveva firmato le "Ballate liriche", metteva mano al suo grande "Preludio"), si legge: "Credo di essermi deciso a scrivere le mie opere metafisiche sotto forma della mia vita e nella mia vita, mescolate con tutti gli altri eventi". I corsivi sono dell'autore e, soprattutto il secondo, presaghi della difficoltà dell'impresa: quando iniziare? e che limiti porre a un'opera filosofica in forma di vita? Dopo tredici anni in compagnia di simili rovelli ("the dark years", li chiama un biografo), con la sua abituale, turbata autoironia, Coleridge può ancora annotare che "la [sua] intera esistenza è stata sfortunatamente poco più che una serie prolungata di etceteras". È il 20 maggio 1815 a giorni avrebbe iniziato a dettare quella che nelle intenzioni, doveva essere solo una breve prefazione alle "Sibylline Leaves" (la nuova edizione dei suoi versi), ma che in poche settimane cresce imprevedibilmente, diventa autobiografia e cronaca di un'epoca, trattato filosofico e professione di fede, apologia e autoaccusa, critica culturale, teoria, storia e critica letteraria. Per la metà di settembre la "Biographia Literaria" è pressoché completa: meno di quattro mesi, un tempo brevissimo, un niente - forse l'unico non tempo su cui potesse contare questo grande e accidioso autore, questo maestro della digressione posseduto da un'irrinunciabile passione per l'unità, tormentato dal demone della procrastinazione, paralizzato dalla ricchezza del proprio pensiero e da una straordinaria consuetudine col pensiero altrui.
Il problema del "pensiero altrui" è stato l'arma più affilata dei detrattori, la principale preoccupazione di studiosi e curatori (a cominciare dalla figlia di Coleridge, Sara, che nel 1847 approntò la prima edizione commentata dell'opera), e uno degli assilli dello stesso autore, che si tradisce anticipando un paio di volte l'accusa di plagio, per liquidarla con l'apodittica considerazione che "la verità [è] una divina ventriloqua: non importa dalla bocca di chi si suppone procedano i suoni, purché le parole risultino udibili e comprensibili" (cap.10). Come opera di metafisica la "Biographia" è certo meno importante degli scritti di Schelling (il più saccheggiato), Maass, Jacobi, Kant e Fichte, che sono indebitamente incorporati (riassunti, parafrasati o direttamente tradotti) fino a costituire circa un quarto di quei "capitoli filosofici" (5-12) che, a dispetto della collocazione, furono composti per ultimi. Questa appassionata ed estenuante immersione nella cultura tedesca sarà un modello per Carlyle, ma al momento valse a Coleridge aspre critiche anche da parte delle menti più vigili. Lo stesso Hazlitt, che pure lo defin "l'unica persona che abbia mai conosciuto che rispondesse all'idea di uomo di genio", nella sua memorabile stroncatura della "Biographia" lo dipinse "mentre galleggia o affonda in fitti categorie kantiane, in uno stato di sospesa animazione fra sogno e veglia, e lascia il solido terreno della 'storia e dei fatti' per la prima farfalla di teoria, allevata con la fantasia dalle larve del suo cervello".
'Fancy-bred' ("allevata con la fantasia") non è un epiteto scelto a caso: vuole ferire nel vivo. La distinzione fra la 'imagination', che "dissolve, diffonde, dissipa, allo scopo di ri-creare: e, quando questo processo è impossibile, lotta, quale che sia l'esito, per idealizzare e unificare", e la 'fancy', che "non è altro che una modalità della memoria emancipata dall'ordine dello spazio e del tempo, [e] deve ricevere tutti i suoi materiali già pronti dalla legge dell'associazione" (cap. 13), è infatti non solo il passo più noto della "Biographia", ma probabilmente il più citato dell'intera tradizione critica anglosassone. Ed è proprio la sproporzione fra il suo aforistico nitore e la farraginosità delle elucubrazioni che lo precedono a tradire come, nella molteplicità dei "generi" orchestrati, la "Biographia" stessa non sia opera di pura imagination, esercizio di una "mente Continua", costantemente in grado di "connettere", non solo di "giustapporre" (desumo questi termini da un appunto del "Diario" giugno 18041 in cui la 'fancy' è ancora identificata con l'augusteo 'wit'). Inserita come "risultato principale" di una mai scritta "pubblicazione futura", prepotentemente "sentita" ma sempre indimostrata, la celebre distinzione è collegata ai capitoli filosofici dall'espediente smaccatamente romanzesco della lettera d'un amico che ne avrebbe interrotto la trascrizione - una trovata fantasiosa, che esorcizza l'horror vacui non senza imbarazzo.
Saltata dunque, con fallibile eleganza, "la lacuna che si spalanca ogni qualvolta dall'analisi filosofica si passa all'ermeneutica del testo" (come scrive Paola Colaiacomo in una densa introduzione), Coleridge può muovere ai capitoli propriamente interpretativi, e già scritti (14-22), della "Biograph¡a". Sono pagine, queste, dove si stabilisce che l'opera poetica è contrapposta a quella scientifica "per avere come obiettivo immediato il conseguimento del piacere e non della verità"; si rivendica l'organicità dell'opera d'arte e l'interdipendenza delle sue singole parti, si riflette sulla funzione del metro e della rima, sulla necessità di una interpenetrazione di passione ed artificio, "di impulso spontaneo e proposito volontario" -, che costituiranno la bibbia del "New Criticism" e continuano ad influenzare le più disparate correnti critiche contemporanee. Eppure il loro interesse "umano" resta sempre primario dato che i testi analizzati sono quasi tutti di Wordsworth. La principale obiezione che viene mossa all'antico e ben più produttivo collaboratore è di ordine teorico: mancando di distinguere fra copia e imitazione (del linguaggio degli umili), Wordsworth adotterebbe - fortunatamente più nei propositi che in pratica - un vocabolario rusticano inadeguato all'alto tema dei suoi versi. In sostanza, Coleridge demistifica l'ideologia giacobina sottesa alla prefazione alle "Ballate Liriche", con argomentazioni ineccepibili, ma a loro volta chiaramente viziate da un'ideologia controrivoluzionaria (in cui per altro lo stesso Wordsworth non aveva ormai alcuna difficoltà a riconoscersi). Seguono mirabili analisi in cui l'intelligenza, il buon senso e la sensibilità dell'orecchio non invocano più alcun supporto teorico. Sono 'close readings' nella miglior tradizione critica anglosassone - che, da Sidney a Johnson a Eliot, vanta un gran numero di critici-poeti-, ma a volte contrassegnati da una caparbietà dettata, se non dall'invidia, certo dal disagio del proprio silenzio poetico (non piacquero a Keats, che negò a Coleridge la shakespeariana virtù della 'negative capability', perché "incapace di rimanere appagato di una quasi-conoscenza"). La grande poesia romantica inglese non fu fondata n‚ da Coleridge n‚ da Wordsworth, ma dal loro dialogo, anche la "Biographia" non restò inascoltata: molte delle varianti che Wordsworth apporterà alle successive edizioni delle sue poesie seguirono i suoi suggerimenti. Non sono quindi le varie critiche isolate che turbarono Wordsworth, quanto - lo dimostra Stephen Gill, il suo più recente biografo ("William Wordsworth. A Life", Oxford 1989) - la domanda implicita nell'opera: saprà Wordsworth produrre il poema filosofico cui s'era preparato da tutta la vita? Perché, se pure immune dal "blocco dello scrittore", Wordsworth sentiva che anche la propria vena era ormai quasi del tutto estinta: sapeva che non avrebbe più scritto il suo grande poema... e ignorava di averlo già scritto. Cosi non avrebbe mai pubblicato, in vita, quel "Preludio" dedicato proprio a Coleridge, e il cui modello, grazie alla mediazione proustiana, si ripresenta intatto alle opere maggiori del nostro scorcio di secolo a capolavori di "egoismo sublime' (l'epiteto keatsiano per qualificare la poesia di Wordsworth) come "La camera da letto" (1988) di Bertolucci e "Flow Chart" (1991) di John Ashbery.
Di tutti i maggiori poeti romantici, Coleridge fu l'unico che non s'azzardò mai a metter mano a un'epica (in una famosa lettera, disse che gli ci sarebbero voluti dieci anni di letture preparatorie e dieci di composizione, tutti anni buttati al vento se all'ultimo la musa non si fosse degnata di fargli visita...!) ripreso e codificato da Poe, un suo accenno all'impossibilità della "poesia lunga" (cap. 14) diventerà vangelo per le poetiche simboliste e postsimboliste. E un'altra ragione, questa, perché Coleridge sia sempre stato sentito moderno (lo dimostra la quantità di traduzioni della "Rima del vecchio marinaio" in circolazione, contro la scarsezza di traduzioni wordsworthiane): eppure il disagio di questa sua modernità non deve sfuggire. Come nel caso di Valéry (l'autore novecentesco che, almeno per versalità, più gli somiglia) non è stravagante affermare che la sua opera più significativa si trova nelle migliaia di pagine d'appunti di un Diario infinito: ma se le annotazioni dei "Cahiers" si beano della loro folgorante frammentarietà, quelle di Coleridge non sanno nascondere la nostalgia dell'interezza.
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