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L'egemonia di una letteratura nazionale su un'altra non la si giudica poniamo dal numero di traduzioni ma dalla capacità di influenzarne le forme e l'immaginario. È il caso di Javier Calvo che in Spagna tenta il calco del romanzo massimalista tardo postmoderno con Il dio riflettente quasi un apocrifo di Jonathan Lethem Mark Leyner o David Foster Wallace (di cui Calvo è anche traduttore). Come da copione il plot è ipertrofico un po' bislacco prodigo di grottesco puntellato di citazioni ammiccamenti rimandi al cinema e alla cultura pop. Questa volta abbiamo un geniale regista giapponese di film d'arti marziali (è lui il "dio" riflettente del titolo) una Londra tarantiniana produttori cinematografici legati alla mafia ragazzine autolesioniste e ninfomani lottatori arabi di karate godzilla e altri mostri da cartone animato: aggiungeteci un po' quello che volete è molto probabile che nel libro ci sia comunque. Il filo conduttore di tutto ciò è la realizzazione di un improbabile film (trovata che autorizza gli immancabili inserti metanarrativi). Proprio niente di nuovo ma vediamone il lato positivo: nella sua esemplare mediocrità Il dio riflettente permette una facile mappatura del genoma condiviso di questi mostri massimalisti che agitano una certa parte del mercato letterario mondiale. Prima di tutto il tema della creatività: in questo senso la figura di Godzilla (il dinosauro distruttore creato dalle radiazioni atomiche) diventa l'emblema di un immaginario mutante transgenico ma allo stesso tempo perturbante proprio nel suo essere globale spersonalizzato: come se quest'eccesso di circolazione di icone feticci merci romanzi stili piuttosto che emancipare l'immaginazione la condannasse alla sterilità a un'isterica afasia. Per certi versi romanzi così sono "realistici" nella misura in cui cercano di riprodurre l'eccesso informativo da cui siamo quotidianamente bombardati: ma raramente si va oltre la constatazione la presa d'atto magari critica spesso solo compiaciuta. Tale estetica dell'accumulo condanna lo scrittore a una specie di autismo: il dio è appunto riflettente come se tra lo scrittore e il lettore (la società) ci fosse una parete a specchio che li divide che nega la comunicazione perché ogni messaggio viene rimandato indietro. Qui si innesta il secondo grande motivo: quello dell'incomunicabilità. Sono testi anaffettivi che tematizzano la morte del sentimento perché disperso nei mille oggetti simboli e consumi su cui lo investiamo piuttosto che su altri esseri umani. Resta un solo dubbio: se sono opere come Il dio riflettente che pretendono di "dare rinnovato vigore a un postmoderno ormai fiacco" come recita la nota editoriale perché insistere in questo inutile accanimento terapeutico?
Francesco Guglieri
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