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È una di quelle persone che si sottraggono ad ogni definizione, Maria Occhipinti. Lascia parlare i fatti della sua vita, raccolti nei libri: fatti avvenuti nei luoghi più disparati, imprevisti e imprevedibili per una come lei, nata nel 1921 in un quartiere povero di Ragusa, consegnata a un destino di sposa, madre e massaia. Sposa e madre lo diventerà, massaia mai, se per massaia s'intende attenta economa. L'economia dei desideri e delle energie non s'addice al temperamento di Maria. In un racconto d'ispirazione autobiografica, Il carrubo (in Il carrubo e altre storie, Sellerio, Palermo 1993) la protagonista Teresa mostra di nutrire un'irriducibile avversione per la vita che le si prospetta: "Non poteva subire questa vita, era come in un vicolo cieco, senza scampo, e pensava che ci doveva pur essere un'altra soluzione". La soluzione che Teresa trova per sé è studiare da ostetrica presso le suore, quella di Maria è l'impegno sociale e politico a favore dei più deboli. Ma non possiamo dimenticare che è la letteratura la levatrice del suo impegno e, in particolare, il capolavoro di Victor Hugo, I miserabili: "Che mondo mi parve Parigi, che santo Jean Valjean! Piangevo, singhiozzavo, tremavo. Ora cominciavo a capire qualcosa della vita". È la letteratura a far uscire Maria dal suo vicolo cieco; così, quando decide di riprendere gli studi che aveva interrotto alla terza elementare, lo fa con un obiettivo ben preciso: diventare maestra e aiutare tante piccole Marie. Ma i tempi incalzano, sono tempi di guerra e dunque di distruzione e povertà ancora più feroce; quando nel '44 viene aperta a Ragusa la prima Camera del lavoro, d'impulso Maria si getta nel nuovo impegno. Legge i testi della rivoluzione russa e li divulga casa per casa, pronuncia appassionati discorsi a favore della pace; è in questo clima che matura l'episodio che la consegna alla storia, e sia pure quella "scomoda" e controversa della rivolta dei "non si parte", come viene chiamata l'insurrezione di Ragusa nell'inverno '44-'45 contro il bando di leva emanato dal governo Bonomi. La scena è da film di Rossellini: una giovane donna incinta che si getta davanti alle ruote di un camion pieno di ragazzi da mandare al fronte. Ma non è un set cinematografico, e questa donna andrà a finire la sua gravidanza nel confino di Ustica e alleverà la sua bambina in un carcere palermitano: ne uscirà solo nel dicembre '46, per effetto di un'amnistia. Qui si ferma il primo libro Una donna di Ragusa (Landi 1957, Feltrinelli 1976, Sellerio 1993), scritto da Maria durante gli anni del suo peregrinare per l'Italia. E qui s'innesta Una donna libera, sua ideale prosecuzione. Nonostante l'attaccamento alla sua terra, Maria non ci pensa due volte a partire, se questo è il pedaggio che bisogna pagare, nell'Italietta degli anni cinquanta, per scrollarsi di dosso il peso dei condizionamenti. Inizia così il suo itinerario di formazione in compagnia della figlioletta Maria Lenina, dapprima in Italia e poi all'estero: in Svizzera, Francia, Inghilterra, Canada, in diversi stati americani, lavorando come infermiera, baby-sitter, sarta, nutrendosi come un'affamata delle bellezze naturali e artistiche, incontrando persone felicemente "irregolari" come lei: da Pére Godefroy, padre spirituale della comunità Emmaus agli anarchici di Brooklyn, dal "medico dei poveri" Nicola Brunori che lei chiama papà al pittore omosessuale Pablo. E sempre immersa nel suo tempo: l'assassinio dei Kennedy, la guerra nel Vietnam, l'arresto di Angela Davis, il movimento hippy, Valpreda e Pinelli. È un libro dal ritmo irrequieto, scritto con la perizia artigianale di chi trova d'istinto i punti giusti, le rifiniture precise; un libro denso di esperienze e di incontri in cui è possibile rintracciare il filo di alcuni interrogativi cruciali. Che cosa significa, per Maria, essere una del popolo? Sicuramente le risulta molto fastidioso quell'andare "verso il popolo" che negli anni cinquanta costituiva l'obiettivo degli scrittori neorealisti. Sono i particolari a colpire l'attenzione di Maria, come l'espressione usata da Vittorini "i contadini facevano l'amore come le capre", alla quale lei replica con tagliente ironia "E come fanno l'amore i figli dei ferrovieri?". Non sono semplici dettagli, perché essere del popolo, per Maria, significa alimentare una dignità che viene offesa proprio dalla riduzione a bozzetto o a tranche de vie. E ancora, che cosa significa, per lei, fare politica? Sicuramente non schierarsi dietro una bandiera o un'ideologia, perché ha imparato a sue spese, da donna libera, quanto siano imbevuti di pregiudizi molti dei compagni comunisti e anarchici. Così si sente piuttosto una libera pensatrice, "fuori di ogni setta politica" e preferisce mettersi a cercare insieme agli altri, anche quelli che sembrano più lontani, gli obiettivi giusti per cui darsi da fare. Fra tutti, il primo è la pace: l'impegno pacifista di Maria non verrà mai meno. Il secondo è l'armonia. Ma non solo quella che deriva dalla giustizia sociale: prima c'è l'armonia che nasce dal saper comporre nella propria vita gli ingredienti fondamentali, come l'amore, la fede, la politica. Nella consapevolezza, serenamente espressa, che "non c'è bisogno di uccidere una verità per realizzarne un'altra".
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