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Descrizione


Al centro di questo libro sono gli effetti della globalizzazione su certe tipologie di lavoro che le donne occidentali non vogliono più fare: quello della tata, della collaboratrice domestica, dell'aiuto per persone anziane. Donne dalle quali si pretende molto, salvo poi sviluppare istinti di gelosia perché il figlio si è affezionato troppo a loro. Vessate e sfruttate spesso proprio da altre donne. Perché nella battaglia per la parità e il diritto all'autoaffermazione, il femminismo ha perso. Dietro ogni donna in carriera non c'è condivisione dei compiti. Gli uomini si sono ben guardati dal dividersi tra casa e lavoro. Dietro ogni donna affermata c'è un'altra donna, dalla quale dipende l'organizzazione e la serenità della vita domestica.
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Dettagli

2004
23 febbraio 2004
308 p., Brossura
9788807103605

Voce della critica

Donne globali fornisce un'analisi complessa delle relazioni tra migrazione, lavoro, famiglia e genere, descrivendo un fenomeno così rilevante e al tempo stesso poco studiato come la presenza di domestiche, colf e badanti, attraverso un linguaggio accessibile. Le due curatrici sono Barbara Ehrenreich, abilissima a mettere a fuoco istanze cruciali con la sua critica sociale, e Arlie Russell Hochschild, già nota per i suoi studi qualitativi sul rapporto tra famiglia e lavoro nelle ultime tre decadi della società americana (The Time Bind, Henry Holt, 2000, e The Commercializaton of Intimate Life, University of California, 2003).

I saggi contenuti sono tratti da ricerche di studiose (e due studiosi) che hanno avuto il coraggio e l'originalità di intervistare e studiare donne migranti, cioè soggetti sociali che vediamo ogni giorno ma che non fanno notizia, intimamente conosciuti eppure socialmente invisibili. Queste ricerche, svolte già durante gli anni novanta, finalmente escono dall'ambito specialistico degli studi su lavoro e migrazione, per mostrare il nodo cruciale che lega la globalizzazione alle nostre vite quotidiane, nell'Occidente in cui lo stato sociale declina. Ogni saggio descrive un processo che collega la vita di una badante a una traiettoria migratoria ed economica, una relazione di potere, per lo più tra donne, di diversa etnia, razza e provenienza geografica (dal Sud globale al "ricco" Nord). Si passa dal tono personale della scrittrice Susan Cheever, alle mappe dei circuiti globali macrosociologici di Saskia Sassen, dalle ricche case di Manhattan ai bordelli thailandesi descritti da Kevin Bales, direttore dell'associazione Free the Slaves, dall'Africa ai Caraibi. Il libro evidenzia lo sfruttamento a catena che crea un deficit parentale e affettivo distribuito (le donne senza welfare che utilizzano le risorse parentali di donne immigrate che a loro volta affidano a tate, nonne, sorelle o zie la cura dei figli in cambio di un centinaio di dollari mensili mandati a casa). Questi complessi circuiti di sopravvivenza (come li definisce Saskia Sassen) portano donne di diverse provenienze a incontrarsi e sfruttarsi per "essere" all'altezza delle classiche responsabilità della donna adulta: mantenere la casa e i figli in condizione decenti nel proprio paese, o mantenere la famiglia al paese di origine, pur avendo un impiego esterno.

Il quadro generale descritto è devastante, traumatico, ma la forza della denuncia si traduce anche in proposta di punti fondamentali per una regolamentazione dei diritti delle donne globali. Inoltre il libro fornisce una mappa delle iniziative, con indirizzi delle organizzazioni di nannies che agiscono nel contesto statunitense. Il tema delle domestiche e delle lotte per le condizioni di lavoro era già emerso in un lavoro molto interessante di Grace Chang, Disposable Domestics. Immigrant Women Workers in the Global Economy (South End Press, 2000), più orientato a documentare le battaglie legali e politiche, svolte persino con l'utilizzo di fumetti e feste, per politicizzare le lavoratrici, rompere l'isolamento e aumentare la solidarietà tra le donne. È facile vedere le differenze di potere tra le donne di classe medio-alta con una vita professionale intensa e le tate immigrate, notando la poca solidarietà tra donne. Tuttavia, emergono molto più violentemente l'irresponsabile mancanza di aiuto da parte di istituzioni di welfare occidentali, la debolezza delle politiche di parità nella gestione della famiglia e della casa, lo scarso coinvolgimento di mariti e padri e, soprattutto, il terribile costo umano della globalizzazione neoliberista, come sottolinea Ehrenreich nel saggio centrale. La similitudine che la curatrice adotta è quella del mondo occidentale che, come il classico "uomo vecchio stampo", necessita di molte cure - dandole per scontate - da parte della donna tradizionale (paziente, rassicurante, sottomessa, che ha sempre un po' di affetto e calore da dare pur non chiedendo nulla per sé) impersonata dal Sud globale.

Le statistiche dell'Onu parlano da anni della femminilizzazione delle migrazioni e dell'aumento di povertà fra le donne del pianeta, cosa che rende facile riconoscere il Sud globale nelle tate e domestiche sempre più presenti nelle "nostre" famiglie. Tuttavia, la similitudine proposta forse non descrive adeguatamente lo spazio che molte donne occidentali lavoratrici occupano, di fatto, a metà fra i due ruoli. A questo proposito Barbara Ehrenreich ci presenta statistiche sul numero di ore spese per la cura della casa, in netta diminuzione negli ultimi trent'anni, ma pur sempre divise iniquamente fra mogli e mariti: 1,7 ore alla settimana per gli uomini contro 6,7 per le donne. Questi dati sottolineano come la riconfigurazione del lavoro domestico e di cura abbia subito cambiamenti che non hanno reso obsolete le questioni emerse negli anni sessanta sulla retribuzione del lavoro casalingo e il diritto a servizi pubblici per l'infanzia (sempre meno accessibili e a rischio anche nell'Italia contemporanea). Quindi, a un anno dalla prima pubblicazione di Global Women, è indubbiamente utilissimo tradurre questo libro nel contesto italiano, caratterizzato da una crescente presenza di donne migranti in età adulta (e riproduttiva) che svolgono lavori di cura a famiglie e a una popolazione italiana sempre più anziana, e in cui molte donne adulte lavorano fuori casa.

Donne globali è anche un indicatore delle differenze tra gli Stati Uniti e l'Italia, in alcuni aspetti fondamentali: l'erosione trentennale delle limitate politiche di welfare, la necessità di due stipendi sostanziosi per ogni famiglia, la composizione familiare che limita il supporto tra generazioni e la maggiore mobilità nel mondo del lavoro per donne di classe media. Tuttavia, ogni contesto articola diversamente la necessità di lavoratrici immigrate, combinando criteri di appartenenza geografica, di competenza linguistica, di ceto e di genere in modo unico (ciò spiega l'imprevedibilità delle traiettorie delle donne globali).

Il saggio di Rhacel Salazar Parreñas fornisce una nuova terminologia per spiegare la dipendenza dell'economia filippina dal lavoro delle giovani donne migrate, che, spiega l'autrice, esportano cura, creando un "deficit interno di cura" dannosissimo per lo sviluppo sociale e psicologico della comunità filippina. La situazione è tragicamente paradossale, proprio perché per provvedere alla sussistenza economica si pauperizza il patrimonio affettivo, sociale e di cura di intere generazioni di bambini e bambine filippine. Il tema del saggio evoca la necessità di guardare alla globalizzazione anche come trauma psicologico ed esistenziale delle madri e di almeno altre due generazioni (come di intere comunità che dipendono dal lavoro di queste all'estero). Per spiegare come si sia creata l'attuale situazione, Arlie Russell Hochschild sottolinea l'unicità di un assemblaggio postmoderno di questo oggetto di valore chiamato amore, o cura, attraverso la combinazione fatale del benessere economico, dell'ideologia del bambino perfetto (tipici della famiglia benestante americana), del patto di invisibilità della domestica, e della solitudine e distacco dai propri figli sofferta dalla tata.

Porre la questione in termini di deficit ed estrazione di cura e amore riconosce la specificità del lavoro di cura in termini chiari, togliendone la flessibilità e la precarietà tipiche di ciò che resta indefinito, non detto, e che diventa problema personale (come descrive Pierrette Hondagneu-Sotelo nel saggio dedicato ai litigi che portano le domestiche a disastrosi licenziamenti istantanei a causa di un malinteso, un dettaglio, o più spesso una profonda gelosia da parte della madre biologica). In quest'ottica le condizioni di lavoro delle domestiche e delle tate "importate" illegalmente risultano simili a quelle delle prostitute, che svolgono un lavoro basato sull'estrazione ed esportazione del sesso (anche questo spesso chiamato "amore"). In questa continuità si collocano anche le scelte matrimoniali delle donne asiatiche descritte da Hung Cam Thai, che accettano di migrare all'estero sposando sconosciuti per necessità economiche. In tutti questi casi, il costo viene pagato dal corpo e dall'affettività della donna in questione, necessari a pagare debiti o sostenere famiglie lontane, e coesistono situazioni di "libera scelta" individuale e di schiavizzazione vera e propria delle lavoratrici. Il tagliente saggio di Joy Zarembka dimostra come proprio la Banca mondiale abbia tutelato i propri diplomatici, garantendo la segretezza dei visti per il proprio personale di servizio, favorendo cosi' meccanismi di sfruttamento simili a quelli dei circuiti internazionali della prostituzione (per approfondimenti, vedere l'inchiesta di Human Rights' Watch, Hidden in the home: abuse of domestic workers with special visas in the United States, Hrw, 2001).

Se l'aspetto predatorio della globalizzazione è ormai visibile nel discorso pubblico, è quindi importante che anche il lato oscuro - femminile - della globalizzazione, cioè la devastante estrazione di sesso, maternità, cura e affettività venga affrontato con forza. Oggi il personale è globale; perciò, proprio perché le donne globali fanno parte delle relazioni familiari di tanti, i diritti delle lavoratrici di cura/amore possono diventare il fulcro di un cambiamento di pratiche e politiche sociali che responsabilizzino tutti.

L. Fantone

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