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Sono rimasto sorpreso ,letto con piacere,scritto bene,bravissimo. Aspetto il prossimo.
Ho letto questo libro nonostante la copertina e il risvolto sembra voler raggiungere solo un pubblico maschile. niente di più ingannevole! i racconti sono vibranti, crudi, originali. il racconto di ciò che la vita può farci. Consiglio in particolare il secondo racconto "happy hour". anche se il primo lascia letteralmente senza fiato.
Sinceramente speravo in qualcosa di meglio. Qualche racconto è bello, ma altri sono molto lenti.
Recensioni
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Francesco Pecoraro (architetto romano, molto attivo sulla rete con un blog assai "ben frequentato": tashtego.splinder) esordisce a sessantadue anni con questa raccolta di sette racconti. Sette storie legate da una scrittura che non sembra certo quella di un esordiente, per la precisione e l'oculatezza di uno stile che rifugge ogni istanza metaforica o analogica e che punta invece sulla parsimoniosa efficacia di un tono "medio". Sette storie che, a leggerle con lenti prese in prestito dalla sociologia, paiono immerse in una contemporaneità - liquido amniotico in cui quale aggallano, con lieta irresponsabilità, quasi tutti i personaggi e le comparse che animano queste realistiche narrazioni del tempo presente.
Un tempo che pare fluido e leggero, alieno da ogni preoccupazione etica o civile, in cui si è felici di conformarsi acriticamente ai tic e ai vezzi della tribù postmoderna, ampiamente evocati in queste pagine: l'happy hour (è anche il titolo del secondo racconto), il vernissage, la flessibilità e la deregulation estesi dal mondo del lavoro a quello dei rapporti umani quali intoccabili sancta sanctorum, la retorica del "successo per un quarto d'ora" e della fama a tutti i costi, le chat e i video porno della rete, Maalox e tramezzini, velluti e grisaglie, enoteche e feste a sorpresa, yes-man e berluscones, segretarie in carriera e manager, piercing e tatuaggi, jeans consumati in fabbrica e giubbotti di pelle, tanga ben ostentati e suonerie di cellulari a mo' di biglietto da visita. Quasi tutti i personaggi dimostrano un'entusiastica affezione per questi disvalori di un'esistenza cinica e modaiola, gaudente e ferocemente consumista, nella quale sembra interessi solo l'autoreferenzialità di desideri che, alla fine, non sono altro che la proiezione di un ego ipertrofico e narcisista. Quasi tutti, per l'appunto: infatti c'è, in ognuna di queste storie, il protagonista che, pur nella diversità di scelte professionali e affettive, appare accomunato dalla condivisione di una specie di "pratica del disgusto" nei confronti dei riti e delle celebrazioni di una società siffatta, a cui magari, per lungo tempo, in precedenza, aveva attivamente collaborato. Per questo, infatti, questi individui, inevitabilmente isolati e solitari come delle monadi, si sentono contemporaneamente fuori e dentro: "Eppure sono come loro, sono fuori, altrove, li osservo come da dietro una lastra di vetro. Li vedo bene, li comprendo, so un po' di cose su alcuni di loro, osservo le colleganze, gli intrecci".
Il titolo, da questo punto di vista, ha il valore di un'indicazione, di un estremo, anche se confuso e approssimativo, tentativo di "chiamarsi fuori" da questa apocalisse integrale della coscienza e dei valori. Curiosamente, esso non è eponimo di alcun racconto, ma fotografa, con secca efficacia, la condizione di chi, nei singoli racconti, sia pur tra mille incertezze e ambiguità su ciò che lo aspetta, vuole autoescludersi, con gesti clamorosi e "definitivi", da quella festa perpetua dell'insensatezza e del consumo.
Lo esprime bene, questo disagio, il protagonista del primo racconto, l'inquietante Camere e stanze, in cui un professore universitario, durante la festa del suo cinquantesimo compleanno, si vedrà praticamente "espropriato" non solo da casa propria, ma da tutto ciò che pensava gli appartenesse legittimamente: "Tutta la sua vita era lì, dentro quella casa. Fuori il mondo scorreva per conto proprio verso chissà quale destino, ma lui da un po' di tempo sembrava si fosse dissociato: succedesse quello che doveva succedere, andasse pure tutto in malora, lui sarebbe restato presso le sue quattro cose, la sua Tv, il dipartimento, le copie del suo libro, le sue vecchie giacche". Così anche gli antieroi degli altri racconti sono raffigurati in un momento decisivo della loro vita, quando, dopo un'esistenza trascorsa nella menzogna rassicurante e protettiva dell'acquiescenza al "così fan tutti", decidono una svolta, di rompere brutalmente o, comunque, di attuare una sospensione, spesso violenta, dell'ordine "naturale" delle cose: per disgusto, per noia, per raggiunto limite nella capacità di sopportazione, per un tardivo soprassalto etico. Così accade anche in Rosso Mafai, quando il pittore protagonista decide di portare avanti, giocandosi carriera e amore, il suo grande Progetto, cioè quello di "dipingere all'infinito tele senza significato, tutte uguali o al massimo di colore diverso" e che si titilla con possibilità di suicidio, compulsate voyeuristicamente, in bilico fra orrore e seduzione; oppure il manager di Vivi nascosto, che donchisciottescamente tenta di far saltare una speculazione a proposito di una discarica abusiva; o l'artista di Il match, che, con attitudine masochista, si fa travolgere da irresolubili problemi di pittura, di mestiere, di soldi.
Tutti questi individui, sia che si usi la formula dell'io narrante sia quella più "rassicurante" della terza persona, ci ricordano quelli che, come recitava una vecchia poesia di Brecht, sentono giunta l'ora "di sedersi dalla parte del torto, perché tutti gli altri posti erano occupati": meno "estetica" (?), più etica, dunque, come recitava il titolo di una Biennale dell'architettura qualche anno fa.
Linnio Accorroni
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