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Non all’altezza di superunknown ma molto valido e con brani molto interessanti e diversi rispetto ad album precedenti
Trascorrono soltanto due anni fra il precedente lavoro dei Soundgarden, Superunknown (1994), e questo Down on the upside (1996), ma il sound della band di Seattle pare essersi in qualche modo ammorbidito, pur non essendosi piegato del tutto alle logiche del music business. Le chitarre ancora abbondano, il cantato prepotente di Chris Cornell la fa da padrone in brani come No attention, Burden in my hand e Rhinosaur e i ritmi furibondi di pezzi come Ty cobb o Never the machine forever negano drasticamente qualsiasi possibilità di conversione al pop più smaccatamente radiofonico; eppure i Soundgarden sembrano comunque aver fatto un passo indietro rispetto a certi eccessi in odore di metal che nel passato ne caratterizzavano la cifra stilistica. Una canzone come Blow up the outside world, ad esempio, è stata la giusta scelta come singolo, con la sua vellutata, avvolgente strofa che lancia un ritornello dalla melodia indimenticabile; allo stesso modo va riconosciuto il potenziale commerciale di Pretty noose, traccia di apertura e azzeccatissimo primo singolo. Nemmeno gli episodi definibili minori del cd, come Applebite o An unkind, deludono, in una scaletta folta di titoli, di idee sonore e di arrangiamenti complessi come ai Soundgarden piace architettare; una nota di merito infine va spesa per l'elegante solennità di Boot camp, ultimo titolo in scaletta, chiusura eccellente di un ottimo album.
Canto del cigno della band di Seattle: dopo quest'album si prenderanno una "pausa" di 16 anni. Il più psichedelico e ipnotico della loro discografia, il sound si è ammorbidito ma è comunque interessante, le composizioni sono le più articolate e complesse di sempre, i tempi dispari e composti compaiono un po' ovunque. Da avere assolutamente.
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