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DR. ADDER Era caduto nelle mani di una specie di scienziato pazzo che estraeva grosse lucertole insanguinate dal cervello della gente per poi tagliarla a pezzi finché non assomigliava a loro. Un chirurgo che estirpava i tumori e buttava via il resto del corpo sano perché non serviva. Il Dr. Adder è lo sconvolgente e controverso romanzo scritto da Kevin Wayne Jeter nel ’72; l’opera è ambientata in una Los Angeles futura, degradata, patria di freak e prostitute, di venditori di droghe e sicari, che rimanda per moltissimi aspetti alla metropoli prossima ricreata da Ridley Scott in Blade Runner. Jeter è sempre stato un grande appassionato delle opere di Philip Dick, sul quale ha scritto numerosi interventi, fin dai sui tempi di scuola, mostrando altresì personali tendenze iconoclaste sfociate poi nella stesura finale del Dr. Adder. Il libro comunque, non trova negli anni ’70 alcun editore disposto a pubblicarlo, si guadagna in compenso, all’interno dei circoli letterari americani una certa reputazione, ma come testo maledetto. La ricerca del punto di fusione del reale, il momento in cui la materia sublima in quella informe e malleabile dell’immagine, è la prima e la più stupefacente delle ossessioni di Jeter: il rimando agli orologi molli di Dalì è d’obbligo. Il Dr. Adder si muove attraverso le ambivalenze di una megalopoli – o meglio d’un assieme d’urbanizzazioni che ambiscono a riconoscersi nel nome d’una città - che per divenire allegoria d’una civiltà decadente non ha bisogno d’altro che d’essere raccontata. L’interfaccia che domina queste pagine, non è quella del cyberpunk, tra uomo e macchina, ma una sorta di zona franca che evidenzia l’esistenza d’un attrito tra i desideri e la loro ammissibilità sociale. L’interfaccia è un argine che s’innerva coi suoi vicoli rizomatici nel corpo di due entità contrapposte, la Los Angeles futura e le campagne abitate dall’autentica borghesia american
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