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“Mi prende un empito colonizzatore, un rigurgito pionieristico di stampo ben conosciuto. Voglio creare un nuovo giardino dell’Eden, alla faccia di chi ci ha mandato via ignominiosamente da quell’altro”. Eccolo, è in queste parole ardenti il cuore narrativo di Un’ebrea terra terra di Roberta Anau, seconda puntata di una autobiografia “errante” cominciata con Asini, oche e rabbini (e/o, 2011). Errante certo, per la dimensione della sfida che il nuovo episodio descrive: quella di inventare un inizio, in una terra ostile; quella di inventare una convivenza, con un Adamo enigmatico; quella di inventare un nuovo contatto con la terra e con l’origine, con quell’ebraismo tentato, intentato e ritentato che è da sempre, per ogni ebreo, terra e fuga insieme. Ma errante anche perché l’autobiografia stessa, sotto la penna di Roberta Anau, sfugge al suo destino di cronaca per diventare lingua, paesaggio verbale, ricchezza di esperienze lessicali e tonali. La lingua di Anau si impenna, si aggrappa, soffia, rimbalza e saetta. Suona diretta e al tempo stesso fastosa, coniuga ruvidezza e splendore verbale con quella apparente spontaneità che è il frutto di un durevole commercio con la parola. Così, mentre dalla cupa selvatichezza di un borgo minerario abbandonato vediamo sorgere tra mille avventure il giardino fiorito e “faunito” (per tentare un neologismo che forse sarà caro all’autrice) della Miniera, Roberta Anau, questa “poco classica Santippe ebrea”, porta il lettore in un luogo nuovo, che non è storico e non è narrativo, perché è il luogo della lingua, dove l’impasto sapido e sapiente dei registri espressivi digerisce la dura lezione della vita e restituisce un amalgama che avvince, coinvolge, commuove, fa sorridere, tremare e a volte arrabbiare, e che lascia sempre, a ogni pagina, il senso profondo di un viaggio anche doloroso che trova ragione di essere proprio nella possibilità di diventare storia, passione, racconto.
Recensione di Massimo Tallone.
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