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Quando l’uomo d’affari Martin Taylor (Tatum) torna in famiglia dopo aver scontato una pena per insider trading, la giovane moglie Emily (Mara) evidenzia preoccupanti segni d’instabilità emotiva che culminano in un tentativo di suicidio e nella presa in carico del suo caso da parte del dottor Banks (Law), uno psichiatra empatico ed inappuntabile. La situazione depressiva assume, tuttavia, connotati sempre più preoccupanti inducendo il medico curante a prescrivere alla paziente un nuovo farmaco che sembra però determinare a sua volta imprevedibili effetti collaterali. La situazione precipita quando Emily, immersa in un apparente stato di sonnambulismo, accoltella a morte il marito e, una volta incriminata, invoca uno stato d’incapacità cagionato dall’antidepressivo, determinando così uno spostamento dell’attenzione della corte giudicante, dei media e dell’opinione pubblica verso il dottor Banks ed innescando un duello psicologico con quest’ultimo destinato ad avere un solo possibile esito: la rovina di uno dei contendenti. Il film di Soderbergh esordisce come un dramma psicologico, sfiorando le spinose tematiche/problematiche (etiche, giuridiche, emotive) connesse all’attività dell’industria farmaceutica, per virare poi verso il thriller in puro stile anni 90 con un chiaro debito verso «Analisi finale» (1992) e molteplici suggestioni mutuate da Hitchcock, De Palma, Cronenberg. Per enfatizzare ambienti e stati emotivi il regista insiste su una fotografia desaturata che fa ampio uso di filtri (con una predominanza di toni aranciati, verde tenue ed azzurrini) e utilizza fuori-fuoco, ralenti e musica ambient-psichedelica per offrire una rappresentazione sensoriale dello stato di alienazione della protagonista. Per una volta algore e sofisticatezza della confezione, pur sottendendo le consuete ambizioni autoriali, non si esauriscono in esse. Il cast, pur privo del carisma di quello di «Analisi finale» (Gere, Basinger, Thurman, E. Roberts), offre una prova convincente.
Oltre la "self-deception" - Sin troppi gl'antecedenti citabili del filone: anzitutto l'ottimo "Killer - Diario di un assassino" del '96, a ritroso "Schegge di paura" sempre del '96, "Analisi finale" del '92 sempre con Gere, e poi qualsiasi De Palma/Hitch o Polanski. Ma qui è interessante il tragitto teorico dello stesso Soderbergh. Nel 2005 con "Bubble" denunciava l'autoinganno e l'autosuggestione psiconevrotici, l'identica self-deception di cui è vittima il Matt Damon di "The Informant!" nel 2009. Il colpo di scena ora, il vero twist nella filmografia del cineasta, consiste nella rinuncia all'inconsapevolezza e all'irresponsabilità per il male compiuto. Ci scusi, Arendt (RIP), però forse esso non è poi così banale. Omicidio a fine di lucro progettato, architettato, costruito con quasi mezzo decennio a disposizione; d'altronde, magari scavando più a fondo nella vita delle due protagoniste (di cui vediamo solo qualche flashback), spunterebbero fuori di nuovo motivazioni non tanto consce, intenzionali e deliberate: patteggiamo allora per un "male non così semplice", come del resto vale per qualunque altra cosa. Soderbergh si sveglia dal proprio sonnambulismo dogmatico, dalla paramnesia buonista, per abbandonare la caccia all'eventuale eziopatologia psichica e focalizzarsi sul danno effettivo, oggettivo, patito da Jude Law, capro espiatorio designato e assai poco consenziente. Mantiene lo stile asettico e distaccato di "Contagion", e lì era enfatico rispetto al tema della pellicola. Invece stavolta l'approccio chirurgico è quello del "freddo gelido che brucia più del fuoco", modo alquanto raffinato sia per identificarsi e disidentificarsi coi vari personaggi prima e dopo la svolta del plot, sia per descrivere la nostra agghiacciante natura.
Film sulla drpressione ,con risvolti imprevedibili,un film con qualche scena hot,da vedere ,interessante.
Recensioni
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