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Egoisti, malvagi, generosi. Storia naturale dell'altruismo - Emanuele G. Coco - copertina
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Egoisti, malvagi, generosi. Storia naturale dell'altruismo - Emanuele G. Coco - copertina
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Descrizione


Avrebbe potuto Macbeth evitare di macchiarsi del sangue dell'assassinio? Avrebbe potuto Otello amare la sua Desdemona senza essere geloso? E re Lear avrebbe potuto sperare nell'affetto delle proprie figlie? Ovvero, con il loro agire questi eroi tragici affermano la propria volontà o, al contrario, sono in balia di leggi biologiche cui non possono sottrarsi? Questo libro racconta la storia delle teorie evoluzionistiche del Novecento che hanno sondato le basi biologiche del comportamento sociale proponendo un confronto critico tra posizioni deterministe e dimensione culturale. In viaggio tra storia della scienza, filosofia e le frontiere della genetica contemporanea in un costante contrappunto fra teatro e realtà non privo di colpi di scena.
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Dettagli

2008
1 gennaio 2008
XI-257 p., Brossura
9788842420163

Voce della critica

Ultimamente, chi si occupa delle dinamiche, dei concetti e dei contesti storici relativi all'intreccio tra bios e comportamenti umani da un punto di vista evoluzionistico è costretto a praticare un costante esercizio di intelligenza critica in un'eccitante/defatigante navigazione, tra una Scilla che chiameremo "il Rubicone dell'Uomo" (riprendendo la frase dal presidente del Pontificio consiglio della cultura che ha incastonato, "siglato", nella cornice dell'Università Gregoriana un megaconvegno sull'evoluzionismo, con conclusioni in chiave teologica) e la Cariddi che chiameremo "il nient'altro-che" (alludendo a quel riduzionismo genetico, portato avanti dall'area dei teorici ultradarwiani, che, applicato ai comportamenti complessi umani, si presenta nel XXI secolo come l'ultima versione del biologismo).
Questi due opposti integralismi prosperano e si potenziano a vicenda secondo una dinamica competitiva che l'antropologo ed epistemologo Gregory Bateson avrebbe chiamato di "schismogenesi" (propria della corsa agli armamenti deterrenti nell'epoca della guerra fredda); una competizione tra integralismi che sembra intensificata dalla ricorrenza del bicentenario darwiniano.
Certo sembrano assai lontani i tempi, peraltro di soli trent'anni fa, in cui una comunità scientifica forte e matura poteva riflettere criticamente sulle connessioni tra ideologia e ricerca, sui rispecchiamenti che in biologia inevitabilmente si stringono tra un dato contesto sociale e le teorie scientifiche che in esso hanno cittadinanza. Se la ricerca scientifica vive grazie al dubbio sistematico, proprio il dubbio sistematico, o meglio ancora il pensiero critico, non consiste solo nell'esperimento, nell'applicazione del metodo, ma anche – come molti teorici ed epistemologi da Lewontin e Gould, a Cini, Buiatti e Ziman hanno a lungo spiegato – nei metadiscorsi sulle ragioni, sul perché nasca un certo tipo di domande scientifiche in certe fasi, sul perché una tematica sia riconosciuta più o meno attraente o urgente. Nonché sul cui prodest.
Eppure, oggi più che mai, ha senso riprendere in mano questi strumenti critici: cogliere il motivo delle sottolineature di un Rubicone che ci staccherebbe definitivamente da tutte le altre specie animali (quale premessa di trascendenza umana) e indagare d'altro canto i loops biopolitici – ignoti spesso agli stessi biologi – del "noi-non-siamo-nient'altro-che". Appoggiarsi a certezze, infatti, offre quel riposo mentale dal rovellio di scelte e responsabilità richieste dall'essere presenti a se stessi, in pratiche di relazione con i simili e con i diversi da noi. Un riposo mentale deresponsabilizzante offerto dall'affidamento alle fondamenta "certe" dei determinismi comportamentali su base genetica, oppure dall'adesione ai plurimillenari dogmi dei monoteismi.
Tuttavia esistono passaggi – ardui e certamente da affrontare con massima cautela – per riconoscere nostri tratti di base comuni con il resto del mondo animale, e contemporaneamente riconoscere che, se animali sì lo siamo, lo siamo però in modo del tutto particolare. Dove "particolarità" nostra sta a significare l'azione attiva e trasformativa delle storie umane, delle culture, degli stili comportamentali, su alcuni repertori di base condivisi con gran parte del resto del mondo vivente. Una particolarità che ha modulato nel tempo profondo anche il bios, mediante complessi effetti retroattivi di protoscelte culturali. Scelte di pochi, in tempi remoti, che, diffuse, innescarono attraverso la selezione effetti a cascata sul sistema mente/corpo dei nostri antenati e che arrivano da loro a noi. Una particolarità oggi in grado di avviare un processo di "traduzione propriocettiva" su ciò che in noi è natura e non solo di restare sulle soglie, come testimone esterno, di un contesto naturale a noi estraneo.
Sono parole che traggo dall'ultimo lavoro del giovane biologo e storico della scienza Emanuele Coco e che a mio parere ben sintetizzano lo sforzo che muove l'intera sua ricerca: un saggio storico e teorico che si va a inserire proprio in uno di questi passaggi ardui e stretti. In Egoisti, malvagi e generosi. Storia naturale dell'altruismo Coco, con coinvolgimento e rigore, aggiunge un tassello importante alla storia dell'evoluzionismo del Novecento; a quella sua parte che sta alle origini di una discussa disciplina come la sociobiologia. Ci si affaccia così sullo sforzo di naturalizzazione di uno dei sentimenti/comportamenti che ritengo tra i più carichi di antropomorfismo in etologia e di zoomorfismo in sociobiologia: l'altruismo.
L'autore si muove con grazia fra temi roventi, non avendolo peraltro, ricordiamolo, consacrato scientificamente lui questo termine (altruismo), ma avendolo ereditato di autorevoli teorici. Termine, direi, enfatico, se applicato alle forme automatiche di esclusione dalla riproduzione (sacrificio per il gruppo) da parte di molte specie, e rozzo quando invece appiattisce le molteplici sfumature della generosità, della grettezza, dell'amore, dell'odio, della gratitudine, dell'invidia, della solidarietà, dell'avarizia di sé, che invece troviamo, oltre che ovviamente in noi umani, addirittura in molti tipi di primati, come recenti studi di etologia indicano (Franz De Waal).
Detto ciò veniamo alle ragioni di interesse del saggio. Almeno tre ordini di ragioni intrecciate: storiografiche, di biologia teorica e di comunicazione scientifica.
Buona storiografia è l'appassionante (e appassionata) storia del rapporto tra l'autore e il suo soggetto di studio. Coco dichiara a chiare lettere che il suo interesse è innanzitutto narrativo e che discende dalla scoperta di cinque cicli di corsi universitari inediti del biologo e teorico dell'evoluzionismo W. D. Hamilton. I modelli matematici di Hamilton sono oggi noti e sono alla base delle teorie sulla selezione di gruppo e di individuo, per formalizzare in chiave genetica un comportamento sociale. L'autore spiega molti dei fraintendimenti cui vennero sottoposti tali modelli, documenta ed entra nel dettaglio delle chiavi teoriche (da un punto di vista evoluzionista classico si tratta di un comportamento controselettivo per l'ottimizzazione individuale) nonché delle chiavi formali (le equazioni algebriche della genetica di popolazioni applicate al comportamento sociale). E dunque fa un lavoro teorico e di comunicazione ad alto livello di un'importante parte della biologia del secolo scorso.
Come storico ci presenta l'Hamilton uomo, uno studioso che a lungo vive in un margine angusto come lecturer all'Imperial College, che conosce maggiore fortuna negli Stati Uniti, ma che solo tardivamente e poco prima della sua precoce scomparsa viene riconosciuto come il fondatore delle ricerche sulle basi genetiche della socialità (animale e umana). Si condivide così con l'autore il fascino di interrogare materiali inediti, l'addentrarsi nelle formule matematiche inventante da Hamilton, la comprensione del personaggio e della sua storia. Si osserva l'appropriazione delle sue teorie dal versante ultradarwiniano, si apprezza la chiarificazione del controverso tema dei livelli di selezione (la selezione agisce sui geni? Sull'individuo, come già riteneva Darwin? Sul gruppo? Sulla specie come alcuni ritengono oggi?). Questa doppia dimensione, teorica e storiografica, fa della ricerca di Coco un libro che apporta conoscenza. Cosa non da poco.
A tutto ciò si intreccia una singolare scelta stilistica. Quella di interrogare le teorie scientifiche con suggestioni letterarie e teatrali (i grandi archetipi shakespeariani). Usare il drammaturgo inglese come "suggeritore" muove dall'ideale dell'incontro tra saggio e romanzo, immette uno stile discorsivo che si alterna alla precisione dei capitoli più tecnici. Sono allusioni, cortocircuiti, sguardi obliqui sul gioco natura/cultura ("pietà naturale", "misfatti della natura", "innaturalità" del male assoluto di personaggi come Lady Machbeth, Iago, Shylock). Forse resta in chi legge la voglia di una maggiore esplicitazione diretta: di entrare in ciò che ormai la conoscenza della psiche umana sa dirci della genesi esperienziale altamente diversificata del sentire umano su base relazionale precoce, e di quanto l'etica stessa interroghi oggi con i suoi strumenti la naturalizzazione (per fare solo un esempio: Iago è l'invidia proiettata su tutti gli altri personaggi della tragedia, non tanto il male assoluto; ma dell'invidia e del suo opposto, la gratitudine – e non certo l'altruismo – ormai se ne sa troppo per non tenerne conto anche nella lettura del personaggio shakespeariano).
Se il connubio teatro-biologia stimola e in parte disorienta, altrettanto inaspettato per certi versi arriva l'ultimo capitolo. Perché, dopo aver condotto il lettore sulla linea del geneticismo sociobiologico, e aver fatto vivamente simpatizzare con il personaggio di Hamilton, dopo aver attraversato le teorie più riduzioniste sul comportamento, quasi inaspettatamente, ma con una certa sapienza e garbo, l'autore prende congedo dal suo Virgilio immaginario, "per la distanza", dichiara, tra le proprie convinzioni di biologo ed etologo del XXI secolo e quelle del suo sociobiologo di metà XX secolo. Cosicché l'ultimo capitolo del libro è dedicato alla situazione attuale della ricerca e alle trasformazioni che questa può produrre sulle teorie di solo cinquant'anni fa. Viene infatti qui messa in azione l'intera gamma delle più recenti ricerche di epigenetica, degli studi culturali, delle neuroscienze e si prendono le distanze dall'idea di finalità adattative della fitness per la nostra specie. "Muovendosi sulla scia della propria evoluzione culturale l'uomo sembra aver abbandonato questa finalità adattativa [lasciare il maggior numero di discendenti]. Egli è in grado di adottare comportamenti del tutto svincolati dalle logiche di resa adattiva".
Proprio l'ultimo capitolo smonta il tutto allora? Direi piuttosto che crea un diverso feed-back sull'intero libro. Anzi, il pregio di un lento accostamento storiografico e anche, perché no, la constatazione delle debolezze della "genetica dell'altruismo", proprio dopo che ne abbiamo seguito con interesse il suo affermarsi negli anni settanta, riapre indirettamente i giochi e i reciproci smascheramenti tra scienza e ideologia, a partire non dall'esterno della mera critica politica, ma dall'interno di una disciplina che cambia. E dunque con una competenza e una forza maggiori.
Elena Gagliasso

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