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Come si comporta un diplomatico? "Diplomaticamente", direte voi. Prudenza e distacco dalla realtà proprio nel momento che questa preme minacciosa alla porta della residenza extraterritoriale, in nome della stabilità dello stato. Ai nostri occhi il diplomatico continua a mostrare straordinari e un po' misteriosi caratteri antropologici. Con il sospetto che a lungo operare interiorizzi il mestiere e finisca per nutrire qualche dubbio sull'esistenza stessa della realtà. Ma che ne è di lui quando lascia l'incarico? Lo vedete bene: appare in televisione o sui giornali e puntualmente commenta con un tono e parole che rivelano, intatto, lo stile di sempre. Anche se oggi, bisogna aggiungerlo, con Internet e WikiLeaks il mestiere si fa difficile e pare invitare al ritiro anzitempo dell'intera categoria.
Eppure alcuni ambasciatori sembrano voler protrarre questo confronto a colpi di fioretto con il contesto politico, come accade al decano della nostra diplomazia, Boris Biancheri: editorialista, già presidente dell'Ansa, poi della Federazione editori giornali, e ora presidente dell'Istituto per gli studi di politica internazionale. Non si può dire che abbia scelto il buen retiro. Anzi, sembra aver accelerato l'appuntamento con l'intreccio e il pasticciaccio gaddiano dei casi della polis. Apparentemente. Perché Boris Biancheri ha da tempo trovato la sua tattica di presa di distanza. Non con la diplomazia. Ma con quello strumento di per sé straniante che è la letteratura. E con Elogio del silenzio è arrivato già al suo quarto libro narrativo. Figlio di un diplomatico dell'estremo Ponente ligure (Ventimiglia) e della baronessa lèttone Olga Wolff von Stormersee, Boris è nipote di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, dal momento che l'autore del Gattopardo sposò Alexandra, sorella di Olga. E puntualmente il primo libro letterario di Biancheri si intitolava L'ambra del Baltico. Carteggio immaginario con Giuseppe Tomasi di Lampedusa (1994). Poi arrivarono due magnifiche narrazioni, Il ritorno a Stomersee. Tre racconti consolari (1994) e Il quinto esilio (2006, sempre per Feltrinelli), dove si narravano i destini incrociati dei suoi cari personaggi in una prosa composta, classicheggiante per partito cosciente e per tattica psicologica, e insieme appassionata nell'estrarre i segreti dalle piccole cose.
Ora Biancheri, con la complicità della libera scelta narrativa che non deve rispondere a nessuna ragion di stato, cambia rotta. Scrive una sorta di parabola, di biografia immaginaria esemplare. Quella di Felix, un ragazzo tanto silenzioso da incutere nei genitori il timore che sia muto. Dotato di intelligenza superiore e di una memoria straordinaria, Felix quasi con noncuranza diventerà l'allievo di un docente universitario, il professor Kobbe, il Maestro, ben presto presidente del Consiglio. Costui governerà, con a fianco Felix, nella maniera più cinica, bloccando la nazione come in uno stagno ghiacciato, secondo la quintessenza della lezione politico-diplomatica che rimane quella illustrata dal Manzoni: quieta non movere et mota quietare. Felix lo segue, ma segue anche il proprio sguardo di entomologo per cui gli uomini, le donne, i loro movimenti gli appaiono proprio quelli degli insetti, e non per inclinazione kafkiana, ma per un'innata propensione alla distanza di sicurezza da ogni coinvolgimento. Arriva l'imprevisto. Un uomo uccide a bruciapelo il Gran presidente. Un colpo, così, e una grande misteriosa risata, che riecheggerà a lungo nella mente di Felix. Sarà proprio lui a subentrare nella massima carica, proprio lui che aveva sempre nutrito un "rapporto ambiguo con il potere e con tutto l'universo".
E invano il lettore, in questa complessa trafila di vicende politiche anche cruente, cercherà agganci con la situazione odierna, che pure ci sono ma solamente per via di fulminee frecciate serissime e con una vena appena percettibile di un sano cinismo. Come andrà a finire l'intento conclusivo di Felix di riportare alla verità e alla dignità quel rapporto con il reale che lui, pur vivendo e prosperando al suo interno, aveva sempre saputo leggere come attraverso una tassonomia biologica, lascio al lettore scoprire. Resta che Biancheri evita qui un'analisi sociopolitica, come evita pure il diretto confronto con le memorie, come negli altri suoi libri. Vuole offrirci, invece, prendendo come fidata guida l'amato Montaigne, diplomatico lui pure, qualcosa come la radiografia di un uomo particolare, in una tonalità che solo lui, ambasciatore e scrittore, sa trasmettere nei suoi racconti: il senso di esilio e la melancolia moderna che prova l'individuo che tanto più aspira al silenzio quanto più resta a contatto con il magma, il brusio dell'ammasso di esseri umani con le loro forze, le spinte e le controspinte (un diplomatico legge sempre le vicende e le parole umane come un gioco di rapporti di forze), con il loro rumore di fondo ininterrotto e il dubbio radicale sulla realtà stessa: "Chi può dire esattamente dove si trova in ogni momento della sua vita?". Giorgio Bertone
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