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Elogio della cura. Il progetto di restauro: orientamenti critici ed esperienze - Susanna Caccia - copertina
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Elogio della cura. Il progetto di restauro: orientamenti critici ed esperienze - Susanna Caccia - copertina

Descrizione


Senza insistere sugli aspetti cognitivi del patrimonio, trattati in vari contesti e pubblicazioni cui si rimanda, il testo prova a restituire il percorso scientifico del processo progettuale, cercando di esporre in maniera chiara e lineare le sue possibili fasi (dal progetto di conoscenza, alla registrazione e analisi dei dati, fino alla definizione di linee di intervento e metodi di soluzione progettuale). L'intento della pubblicazione è ricondurre la complessità del progetto di restauro, tanto evocata quanto spesso poco esplicitata teoricamente, a una strategia capace di elaborare ragionamenti e a operare scelte, partendo dagli aspetti cognitivi del patrimonio e dalle relazioni tra cambiamento e permanenza. L'ipotesi di lavoro è di provar a dimostrare come l'identità di un bene si riconosca anche attraverso le sue trasformazioni e come la continuità o permanenza di "quel" bene, rispetto ai suoi possibili cambiamenti fisici e antropici, porti a privilegiare due parole, con tutte le epistemologie storiche che si portano dietro: stratificazione e palinsesto.
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Dettagli

2012
1 novembre 2012
296 p., Brossura
9788846735058

Voce della critica

  Non c'è un tema oggi più dibattuto di quello che, per paradosso, non si riesce neanche a delimitare: patrimonio, beni culturali, paesaggio (urbano dopo che naturale). Le ragioni non sono facili da riassumere: una crisi dell'industria delle costruzioni che dura da cinque anni ed è strutturale, un nuovo rituale (quello della sostenibilità unito a dichiarazioni sempre più radicali contro il consumo di suolo), l'affermarsi di una valorizzazione di città e architetture in chiave di consumo turistico. Un processo talmente profondo che non riesce ancora a trovare un nome. Mancanza che, senza ricorrere a Jung, qualcosa dice. In una tale situazione, non senza sorpresa, il cuore tradizionale di questo processo, insieme culturale, economico e sociale, il restauro, conosce una crisi profonda. Se il termine non fosse troppo ambiguo e pericoloso, si potrebbe definire una crisi di identità. Una crisi che, questa invece non è una sorpresa, produce una letteratura sempre più vasta, il cui paradosso sta forse nella rivendicazione di specialismi che certo consolidano nuove professionalità, ma appaiono quasi il ritratto del lacaniano desiderio del desiderio di riconoscimento. Rari sono i testi che cercano di ritrovare i fili di una condizione, quella di chi è chiamato a operare scelte quando si interviene su un groviglio, di parole, azioni e norme, che farebbe la fortuna del mago di Oz. Uno di questi rari, ma preziosi, libri è quello di Susanna Caccia, Elogio della cura. Seguirne alcune trame forse aiuta a capire quali sono i fili che si sono così intrecciati da apparire un'inestricabile e forse sin troppo utile matassa. La prima riguarda la difficoltà che il restauro conosce, non da oggi, di passare da idioletto a lingua, la difficoltà cioè di "far assurgere a lingua un insieme di espressioni tecniche, come tali incapaci di affrontare uno dei problemi essenziali che ha il restauro: quello di diventare patrimonio linguistico, prima che materiale, di comunità e società contemporanee". Strada obbligata se le scelte che chi restaura compie devono incontrare un'opinione pubblica insieme distante e affascinata: condizioni entrambe rischiose. Caccia propone una strada ardua, che nel libro si traduce in un ripercorrere alcuni passaggi fondamentali della riflessione sul restauro: quella di tornare a prendersi cura in primis delle parole che possono istituire il restauro come lingua. La seconda trama, a questa strettamente correlata, è quella che il restauro condivide con la storia contemporanea. Gli ultimi venti anni sono stati segnati da una "politica della memoria" che ha trovato modo di esprimersi in concorsi, musei, restauri. Un coinvolgimento diretto che, come ricordano storici come Bronislaw Geremek e Martin Sabrow parlando della recente politica tedesca, mette in discussione la necessaria distanza tra argomentazione e narrazione, arrivando a giustificare un indebolimento delle procedure della ricerca scientifica. Una condizione che il restauro, soprattutto quando è inteso come progetto di restauro, conosce quasi ontologicamente. Il libro rievoca e discute riferimenti essenziali di questa condizione, in particolare nel capitolo terzo. L'unicità di ciascun intervento e, di contrappasso, la codificazione quasi ossessiva di ogni azione in cantiere. La necessità di concepire il cantiere di restauro come un palinsesto e la vicinanza del metodo che il restauratore segue in una definizione che si avvicina a quella che ne dà Gilles-Gaston Granger, e l'esasperazione filologica che porta a considerare il restauro quasi una "restituzione", nella sua accezione quasi teologica. La doppia natura delle fonti, letterarie e fisiche, che, esacerbando il passaggio dallo studio storico al progetto, aprono e legittimano insieme determinismi e relativismi epistemologici e progettuali. Caccia si trova qui ad affrontare una delle matasse più intricate del progetto di restauro: la discrezionalità. L'unicità di ogni intervento, ed è uno dei passaggi più interessanti del libro, si confronta anche con la natura multiforme del simbolo con cui il restauratore si trova a misurarsi: il simbolo come motivo e segno, come immagine, come archetipo e come monade (riferimento importante alla riflessione di Northop Frye). Il "caso per caso" si misura cioè non tanto con il primato del punto di vista (tematica che il restauratore condivide con lo scienziato sociale), e neanche solo con la stratificazione di regole, ma anche con una forma di razionalità che non può essere solo analitica, concettuale o empirica, ma che si rivela fondamentalmente dialogica: un dialogo in cui le singole fasi del progetto di restauro "devono essere implementare dalla continua evoluzione del dibattito disciplinare come delle esperienze di cantiere". Un'accezione che avvicina, come l'autrice dichiara, l'epistemologia del restauro alle riflessioni di Willard van Orman Quine. Il cuore del libro è in queste pagine in cui la riflessione su una possibile epistemologia del restauro si accompagna al tentativo di delineare un processo in cui il cantiere non si trasforma in un momento di verifica di ipotesi, teorie o filologie: "La somiglianza di famiglie, concetti e prototipi che sono chiamati a interagire fanno del cantiere e del progetto un'attività conoscitiva di relazione tra le più complesse". E Caccia fa seguire a quest'affermazione un esquisse di queste interrelazioni che muove dalle misure e arriva alla manutenzione. Una successione che però non si presenta esclusivamente come narrazione o peggio come relazione determinata di fasi. Il richiamo a Hilary Putman suona a questo punto del testo quasi esplicitamente ironico: "Le descrizioni che diventano procedure sono state spesso l'anticamera della morte delle scienze che le hanno praticate". Le tracce che il libro propone trovano nella conclusione il nodo insieme più problematico e interessante. Se le azioni di chi restaura sono state riconosciute (da quelli che ne garantiscono la continuità come dalle credenze normative), le cause da cui muovono quelle azioni sono sempre giudizi di valore: il degrado, la perdita di funzionalità, il mutare del contesto urbano o territoriale hanno metriche sempre più sofisticate, ma rispondono comunque a un valore che la comunità, o meglio la società, definisce o contesta. La decisione di intervenire appartiene cioè a una democrazia deliberativa che riconosce qual è il bene comune e a una razionalità dialogica, che il radicalizzarsi di posizioni in forme spesso di "tirannia dei valori", per richiamare un altro autore citato, Carl Schmitt, esaspera. L'esigenza di tornare a riflettere sulle basi fondative del progetto di restauro non nasce solo dalla crisi di un sapere esperto, suggestionato da tanti specialismi: nasce soprattutto dall'essere la decisione parte sostantiva di una democrazia deliberativa che sta giocando sulla memoria partite sempre più importanti e che soffre, come Caccia ricorda spiegando il glossario finale, di una rottura tra parola e luogo, che vede saperi specialistici dover usare sempre più metafore e analogie per legittimare all'opinione pubblica il proprio esistere. Con una certa astuzia, l'autrice ripropone in conclusione il problema della cura delle parole, evidenziando come senza un vocabolario comune – costruito, e questo è un punto su cui continuare la sua riflessione essenzialmente su convenzioni internazionali come le diverse Carte del Restauro ‒ non si dà comunità scientifica e insieme democrazia, perché si sancisce ancor di più quella separazione tra luoghi e parole che la globalizzazione rischia di far diventare l'immagine triste di due mondi paralleli, quello delle narrazioni e quello delle pratiche: mondi che potrebbero a non incontrarsi mai, come i sentieri di Alice nel paese delle meraviglie.   Carlo Olmo    

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