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Elementi di acciaio giuntati per mezzo di chiodi. È la tecnica di costruzione dello scheletro dell'Empire State Building: 57.000 tonnellate di acciaio messe in posa dal 7 aprile al 22 settembre del 1930. Lo scheletro è l'elemento che più ha colpito l'immaginario di un pubblico affascinato, che alla fine degli anni venti poteva osservare il grattacielo crescere a una velocità vertiginosa. Un anno dalle fondazioni all'entrata degli inquilini.
L'eccezionalità dell'edificio non è data dalla mole, pure impressionante. Né dall'altezza, 1252 piedi, equivalenti a 102 piani comprensivi del pilone d'ormeggio. Ma da un sistema costruttivo accurato che traduce un nuovo modo di concepire, assieme, gestione del cantiere e aspetti architettonici. Così che è difficile parlare delle larghe fasce luccicanti di acciaio, alternate alla pietra calcarea e ai pannelli di alluminio scuro, senza parlare del fast tracking, pratica che prevedeva la possibilità di iniziare una fase della costruzione prima che la precedente fosse terminata, rompendo sequenze tradizionali. Il che richiedeva una notevole capacità di previsione, oltre che un'organizzazione eccezionale di tutte le fasi di produzione.
La vicenda dell'Empire State Building è di quelle che raccontano la modernità per come ciascuno di noi la immagina. Una grande sfida portata avanti da un insieme plurale di figure che riesce straordinariamente a muoversi all'unisono. Architetti, ingegneri, proprietari, costruttori, produttori di materie prime e maestranze. Al centro di questa folla vi sono i costruttori, lo studio Starrett Brothers and Eken che ha dovuto affrontare tutti quei problemi ai quali la grandezza dell'edificio fa fare un salto di scala: dai problemi strutturali, alla predisposizione degli impianti, al reperimento di materiali e alla loro mobilità dentro e fuori il cantiere. 500 carichi che nei giorni di punta dovevano raggiungere o allontanarsi dal centro di Midtown. Fino a 3500 operai che dovevano salire e scendere lungo l'edificio in condizioni di sicurezza. Enormi quantità di macerie che si dovevano smaltire poiché sull'area esisteva un grosso edificio, l'hotel Waldorf Astoria, demolito per far posto al grattacielo.
È difficile in una storia come questa non rimanere affascinati dai numeri; dalle straordinarie quantità; dai mezzi e dall'ingegno nel risolvere in modo inedito i problemi. Ed è per la capacità di evitare il facile scivolare nelle retoriche del numero che il libro di Carol Willis appare ancora più apprezzabile. Per il suo tono preciso, piacevole, mai enfatico. Per aver posto il cantiere al suo centro, osservando da questo punto di vista il mutare del ruolo degli attori al procedere dei processi di professionalizzazione che questa vicenda rende visibili, come è per l'invenzione della figura del construction manager capace di gestire subappalti e approvvigionamento di quantità straordinarie di materiali. Nel volume sono pubblicate le Notes on Construction of Empire State Building, un documento anonimo, a metà tra la cronaca, il libro contabile e la testimonianza appassionata, prodotto dall'interno dello studio Starrett Brothers and Eken e illustrato da bellissime immagini fotografiche di materiali, macchinari e fasi del lavoro. Tutto a dimostrare che le storie raccontate dalla parte degli attori possono andare ben oltre la pregnanza figurale dell'opera e le sue affascinate descrizioni.
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