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"Il mio stato d'animo è molto depresso anche perché vedo buio, buio nell'avvenire e non so cosa si possa consigliare". È la metà di giugno del 1945: nemmeno due mesi sono trascorsi dalla fine della guerra e dalla Liberazione, ma nell'animo di Ernesto Rossi ogni traccia di sollievo per la fine di un periodo tragico della storia nazionale, che aveva comportato per lui nove anni di carcere e quattro di confino per la parte avuta nell'azione clandestina di Giustizia e Libertà, è già stata ricoperta da uno spesso strato di pessimismo: scoramento e delusione da un lato, rifiuto di darsi per vinto dall'altro, sono appunto i poli tra i quali si muove l'impegno civile di Rossi nel quarto di secolo tra la caduta del fascismo e il 1967, l'anno della morte, nel tentativo, tenacemente riproposto malgrado ripetute battute d'arresto, di tenere desta nella realtà italiana un'ispirazione politico-ideale di "terza forza".
Tra i protagonisti del Novecento italiano, Rossi è quello che ha lasciato la più nutrita testimonianza epistolare della propria evoluzione intellettuale e delle reti di relazioni amicali e di lavoro al cui interno ha operato nei diversi momenti della vita. L'ampia scelta di lettere inedite curata da Mimmo Franzinelli (alcuni testi erano stati citati da Giuseppe Fiori nella biografia di Rossi, Una vita italiana, Einaudi, 1997; cfr. "L'Indice", 1997, n. 11) completa una serie iniziatasi una trentina di anni fa con l'edizione delle lettere del periodo giovanile e proseguita con i volumi della corrispondenza dal carcere e dal confino e con le raccolte dei carteggi tra Rossi e i due interlocutori più importanti del suo percorso umano e intellettuale, Luigi Einaudi e Gaetano Salvemini. Proprio i carteggi con Einaudi e Salvemini coprivano già in buona parte l'arco cronologico 1943-1967, e soprattutto dal secondo, anch'esso curato da Franzinelli (Dall'esilio alla Repubblica, Bollati Boringhieri, 2004; cfr. "L'Indice", 2005, n. 5), era venuto un contributo di prima qualità alla conoscenza non solo della personalità di Rossi, ma in genere del campo politico e intellettuale della "terza forza", di cui Salvemini era il nume tutelare. Di conseguenza il nuovo volume ha, come fonte documentale, un valore diseguale: per il periodo fino alla metà degli anni cinquanta aggiunge pennellate, alcune sicuramente molto efficaci, a un quadro di cui già erano visibili i tratti principali, mentre getta molta e nuova luce su diversi aspetti del decennio successivo.
In Rossi la sensazione di appartenere a un campo ideale che potrà scarsamente incidere sulla politica nazionale è vivissima sin dall'inizio. "Ci sono almeno 98 probabilità su cento che rimarremo schiacciati fra i reazionari e i comunisti", scrive già nel dicembre 1944. Contribuisce a questo disincanto la convinzione di essere poco tagliato per fare politica in prima persona e soprattutto per inquadrarsi in un partito. Più che al Partito d'azione, in cui pure milita, si consacra alla causa assai meno politicienne del federalismo europeo (su cui si veda ora Antonella Braga, Un federalista giacobino. Ernesto Rossi pioniere degli Stati Uniti d'Europa, pp. 676, 46, il Mulino, Bologna 2007), attribuendo alla battaglia per l'Europa un valore dirimente, che già prefigura la successiva svalutazione di ogni diversa dimensione della politica: "Se non riusciamo a imporre l'unione federale dell'Europa alla conclusione della pace, tutto quello che potremo fare nell'ambito del nostro stato nazionale non avrà alcun significato". La formazione dei blocchi lo induce alle più fosche previsioni di guerra, mentre la repubblica, in mancanza di una vera rivoluzione antifascista, gli sembra che nasca sotto la cappa insopportabile del trasformismo e della continuità degli apparati di potere.
Da tanto catastrofismo si prova a scuoterlo con leggerezza la vedova di Carlo Rosselli, ricordandogli quale abisso l'Italia si sia comunque lasciata alle spalle: "Col pessimismo non si conclude nulla (
) Lei parla dei democratici-cristiani come fascisti. Ora fascisti non lo sono i democratici-cristiani. Non fanno assassinare gli oppositori politici". Ma Rossi, siamo alla fine del 1946, non si scuote: "L'ideale del Vaticano è un fascismo completamente docile ai suoi voleri, cioè un fascismo più schifoso di quello che abbiamo esperimentato in Italia. Se dovessi scegliere fra Stalin e Pio XII preferirei Stalin". Sopraggiungono poi gli anni più tesi della guerra fredda, che coincidono con l'avvio della stagione del "Mondo". È il periodo in cui Rossi, avversario di ogni forma di fronte popolare, pare più disposto a trovare una collocazione all'interno degli equilibri politici dati. Al fianco di Pannunzio appoggia la collaborazione delle forze laiche con la Dc, proponendosi però, con i tanti suoi scritti di battaglia, di incalzare i responsabili della politica nazionale, sfidandoli a misurarsi sul terreno da lui indicato: lotta ai monopoli e ai carrozzoni burocratici, denuncia del malgoverno, smascheramento delle connivenze tra "padroni del vapore" e regime fascista, laicità, valorizzazione dell'esperienza dell'antifascismo.
A proposito della collaborazione di Rossi al "Mondo" nell'epistolario c'è pochissimo, e si intuisce il perché: la comunicazione in quel caso era diretta, attraverso i contatti personali e la vita di redazione, senza bisogno di lettere. In generale sul Rossi dei primi anni cinquanta diceva di più il carteggio con Salvemini che, fedele a un'idea pura di "terza forza", criticava la condotta dei partiti laici nei riguardi della Dc, obbligando Rossi a motivare e a difendere la sua scelta di cauto sostegno alla formula di governo centrista. Qualche documento rivelatore di questa fase particolarmente "moderata" dell'impegno politico di Rossi c'è comunque anche in questo volume: dopo l'avvio del processo comunitario, nel pieno del negoziato per la Comunità politica europea, Rossi ha l'impressione che gli americani vogliano impegnarsi sul serio per l'unità dell'Europa e che De Gasperi, "finalmente, abbia capito l'impossibilità di risolvere il problema della difesa e il problema economico, senza contemporaneamente risolvere il problema costituzionale europeo". È il momento in cui anche Altiero Spinelli, per le stesse ragioni, si avvicina a De Gasperi, e molto più di Rossi. Chiusasi però quella stagione con il fallimento definitivo del disegno federalista, lo spirito di opposizione connaturato in Rossi finirà nuovamente per imporsi.
Dopo il 1957 l'esperienza del Partito radicale, vissuta, per quanto glielo consente il suo fondo di scetticismo, come un tentativo di rivincita dell'azionismo delle origini, prova però ancora una volta quali laceranti dilemmi si pongano ai fautori di un progetto terzaforzista. Rossi, sempre più portato a battere sul tasto della polemica antivaticana ("il nostro nemico n. 1 è il clericalismo") diffida del cammino intrapreso dai socialisti verso l'alleanza con la Dc ("non si può combattere sul serio la progressiva clericalizzazione del paese e, nello stesso tempo, offrire la collaborazione alla Dc che è lo strumento politico della Chiesa in Italia"). Nello stesso tempo critica duramente la politica americana e fa esplicite dichiarazioni di neutralismo, in considerazione dell'appoggio fornito da Washington, in nome dell'anticomunismo, alle forze reazionarie in Italia e nel mondo. Per parte sua si sente sì anticomunista, ma anticomunista in quanto liberale, e come negli anni cinquanta aveva provato ripulsa per i disegni antidemocratici dell'ambasciatrice Luce e di Pacciardi, così al principio dei sessanta non esclude che possa venire il giorno "in cui saremo costretti ad allearci in un nuovo Cln con i comunisti". Sono posizioni estreme all'interno stesso del Partito radicale, preannuncio dello scontro che porterà nel 1962 alla rottura con Pannunzio e alla cacciata di Rossi dal "Mondo".
Del crescendo drammatico di tensioni personali in cui si consuma la fine del sodalizio, l'epistolario dà ampia testimonianza, inducendo ad amare considerazioni sulla meschinità di cui seppero dar prova in quel caso uomini che pure si volevano interpreti di una concezione più alta e nobile della politica. Andato in pezzi il Partito radicale, Rossi, ormai stanco e definitivamente disilluso sulle chance di una politica di partito, ritiene votato al fallimento il tentativo di Pannella e Spadaccia di riprenderne l'esperienza e comunque diffida della loro propensione a "fare troppo credito alla buona fede democratica dei dirigenti comunisti". Fonda con Parri "L'Astrolabio", sua ultima tribuna, ma presto si sente a disagio anche lì, perché Parri vuol farne una rivista fiancheggiatrice del centrosinistra. Il problema della laicità è il campo a cui si è ormai ristretta la sua prospettiva politica e a cui riconduce, forzosamente, ogni altra questione: "Il vero spartiacque è il suo ultimo messaggio è oggi dato dal laicismo o dal clericalismo. (
) Ieri il bersaglio (di noi pochissimi 'pazzi malinconici' = liberali) era Mussolini. Oggi è il Santo Padre. E non credo che dopo il tradimento delle sinistre si sia più numerosi di ieri".
Leonardo Rapone
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